Leggi anche la prima parte di questo articolo: Non solo ChatGPT: i tentativi di costruire un nuovo Web 3.0 – parte 1.
La parola chiave che guida filosoficamente la progettazione del Web3 è decentralizzazione; i due concetti alla base dell’avanzamento (tecnologico e non) sono blockchain e metaverso.
Spiegare che cos’è la blockchain non è per niente banale. Si tratta di un particolare tipo di database in cui il concetto di decentralizzazione è spinto all’estremo e in cui l’informazione non può mai essere modificata né cancellata, solo aggiunta. Non esiste un singolo server che gestisce le informazioni e nemmeno un’unica entità che possa fare da punto di dialogo e da garante. Al contrario, il database è completamente pubblico e chiunque voglia avere a che fare con la blockchain ne possiede una copia intera. Come si può far sì che tutti abbiano copie uguali? Attraverso delle tecniche crittografiche (ovvero ciò su cui si basa una fetta enorme della cyber-security). La combinazione della crittografia, che pone una sorta di sigillo sulle nuove informazioni, e il fatto che tutti abbiano una copia della informazioni garantiscono che nessuno possa corrompere le informazioni.
Una struttura in cui il dato è a portata di chiunque è in netto capovolgimento rispetto all’attuale paradigma in cui pochi attori accumulano e rivendono i dati di tutti. Resta però il problema di come integrare questo concetto nell’Internet attuale. Attraverso alcune forme di anonimizzazione dei dati, la blockchain riuscirebbe anche a garantire diverse forme di privacy. Secondo i promotori di questa tecnologia, la blockchain avrebbe usi potenzialmente infiniti. Ciò è possibile soprattutto da quando la blockchain Ethereum ha innovato la tecnologia, portandola da un database di oggetti di uno stesso tipo (per esempio, solo transazioni economiche come nella blockchain di Bitcoin) a un database generico. Infatti, attraverso degli smart contract si può inserire perfino del codice (nel senso della programmazione), aprendo ad applicazioni ancora da scoprire.
Questa soluzione piace tanto agli anarchici, che potrebbero così realizzare delle organizzazioni veramente orizzontali, quanto a entità più standard per ottenere maggiore trasparenza e garanzia che gli organi decisionali agiscano secondo delle regole semplici e condivise. Nonostante questo potenziale, non esistono al momento casi di DAO abbastanza ben riuscite da diventare note quantomeno tra i più duri e puri promotori della blockchain.
Al contrario, una delle obiezioni dei detrattori di questa nuova tecnologia è che si fa fatica a trovare usi della blockchain che non siano quelli già messi in atto. Altre applicazioni concrete finiscono per essere molto di nicchia o rinunciano in parte agli aspetti di decentralizzazione, tradendo un po’ le premesse stesse dell’uso di questa tecnologia. Se ciò non bastasse, anche le due più diffuse applicazioni (crittovalute e NFT) sono ampiamente criticate.
Resta di fatto che difficilmente le crittovalute potranno diventare delle valute di uso corrente, nonostante qualche esperimento in Sud America. Questo a causa di uno dei difetti della blockchain: la scarsa scalabilità. Infatti, man mano che le blockchain si ingrandiscono diventano sempre più lente e inefficienti, richiedendo sempre più sforzo di calcolo e soprattutto consumo energetico. Nonostante vengano sviluppati sempre nuovi metodi (soprattutto da parte di Ethereum) per ovviare al problema, non sembra esserci modo di poter elaborare in tempi accettabili un numero di transazioni paragonabile a quelle di un normale circuito di carte di credito.
L’aggiornamento definitivo, che renderebbe la tecnologia finalmente efficiente, è promesso come imminente da diversi anni ma non ha ancora visto la luce. Per ora rimangono uno strumento di finanza alternativo a quelli classici, che si basa principalmente su un diffuso vuoto legislativo, a eccezione di Stati in cui l’uso e la produzione di crittovalute sono stati banditi proprio per arginare il problema dell’enorme consumo energetico.
In sostanza, genererebbero una sorta di stampino virtuale, unico e non replicabile, in modo da creare artificialmente scarsità. Il concetto è: possiamo creare infinite repliche della Monna Lisa di Leonardo, ma l’originale rimane in possesso del museo Louvre, e con esso tutti i diritti d’autore associati. Questo però non impedisce il circolare di magliette, poster e qualsia altra stampa del quadro. La stessa cosa vale per la crypto-arte: l’opera è digitale e replicabile da chiunque ma il gettone, l’unico al mondo di quell’opera, è mio ed è la blockchain a garantire.
Anche in questo caso i problemi non sono pochi: dal fatto che la stessa opera può generare tanti NFT quante blockchain esistono, alle opere messe su blockchain senza il consenso degli artisti (a tale proposito ci sarebbe un’enorme parentesi sui contenuti per adulti che rimangono impressi per sempre nella blockchain, specie se illegali, ma richiederebbe un articolo a parte). Buona parte delle critiche finisce per concentrarsi sul fatto che tutto il potenziale degli NFT si riduce a un mero investimento alla stregua di quello che viene fatto con le opere fisiche o, più raramente, a uno strumento di marketing per creare delle comunità online.
Il termine nasce nella letteratura cyberpunk, dove è un topos piuttosto utilizzato, e rappresenterebbe una sorta di estensione del mondo reale che va ad assottigliare il confine tra il virtuale e la vita di tutti giorni. Questo si otterrebbe con una grande moltitudine di servizi integrati in un’esperienza iper-realistica. Per comprenderlo meglio con una citazione pop, si pensi alla Infosphere di Futurama.
Al momento quanto di più simile al concetto di metaverso così come la letteratura fantascientifica lo descrive è Roblox, la mega piattaforma contenitore di applicazioni e videogiochi accessibile in realtà virtuale. Nemmeno Roblox è esente da controversie, principalmente per il suo modello di business. Inoltre, è un metaverso interamente virtuale, in cui il confine con la vita reale è ancora netto e marcato, e non sfrutta alcuna tecnologia di realtà aumentata ma solo realtà virtuale.
Nel frattempo, il tanto chiacchierato metaverso inizia a costruirsi con la piattaforma Horizon World di Meta (Facebook), che sembra essere una sorta di versione in realtà virtuale di Second Life, social che non ha mai conquistato una particolare popolarità. Il suo lancio è stato un vero disastro: memato per la sua brutta grafica e il solito poco carisma di Mark Zuckerberg nella demo pubblica è considerato da chi lo ha provato una noiosa e confusionaria delusione, o alla peggio una tecnologia grezza e immatura. Anche nei Paesi dove la piattaforma è pubblica, essa fatica a trattenere utenti: oltre ad aver tradito le aspettative della demo, sembra non avere una esperienza utente ben definita né tantomeno un vero scopo. In sostanza, l’investimento appare una mossa disperata di Zuckerberg per dominare un nuovo mercato essendone pioniere e facendo fruttare gli investimenti in realtà virtuale, tecnologia relegata a giocattolo per persone ricche.
Meta ha cercato a lungo di non demordere. Continuando a non rendere chiaro l’ambizioso piano di costruzione di un indefinito metaverso, l’idea è quella di utilizzarvi gli NFT e dare senso a quella scarsità artificiale. Da oggetti unici a proprietà immobiliari, l’esclusività di certi contenuti è garantita dalla blockchain con la quale dovrebbe far interagire la piattaforma.
Così come accadeva nella costruzione della primissima Internet, queste forme di collaborazione richiedono delle forme di dialogo completamente standard che collidono con gli obiettivi delle singole aziende; e soprattutto, richiedono uno sforzo di ingegnerizzazione dei vari sistemi complesso e costoso. La soluzione sarebbe un metaverso più o meno centralizzato: basta poco a comprendere che questo non è semplicemente un tradimento delle premesse, quanto una negazione dello stesso concetto che si vorrebbe implementare. A fronte delle ingenti perdite e delle pressioni degli investitori, Meta sembrerebbe star cambiando idea, prima abbandonando l’integrazione con gli NFT, poi facendo dichiarazioni che spostano l’entusiasmo su un altro argomento. Quello delle intelligenze artificiali.
Un eventuale ruolo centrale di Meta nella costruzione del WEB3 sarebbe la dimostrazione di una delle critiche mosse dai detrattori di questa nuova idea di Internet. Nonostante l’uso di certe tecnologie, si finirebbe in pochissimo tempo ad avere gli stessi attori di oggi a dominare l’intero mercato di domani, usando la loro grandezza per influenzare, se non proprio manipolare, il settore. Questa critica è particolarmente aspra nei confronti delle crittovalute, ed effettivamente sembrerebbe si stia già andando verso quella situazione.
Le manipolazioni di alcune monete da parte di Elon Musk, combinate alle attività speculative in crittovalute della sua azienda Tesla, ne sarebbero una dimostrazione. Più in generale, la totale decentralizzazione permetterebbe alle organizzazioni più grandi e potenti di fare cartello e dettare le regole del gioco, puntando non solo sulla loro posizione di partenza più vantaggiosa ma anche grazie a delle conoscenze che già posseggono e che i piccoli enti non riuscirebbero a eguagliare.
Se questo non bastasse c’è un altro problema. Il WEB3 non muterebbe di fatto l’esperienza su Internet delle persone medie, che potrebbero persino non accorgersi della transizione. Se il Web 2.0 ha inserito delle nuove funzionalità impensabili prima di quel momento, la decentralizzazione lascerebbe sostanzialmente immutato quello che tutti vediamo sui nostri browser. Ne è un esempio il fediverso, una galassia di server su cui si costruiscono alcuni social network che già cercano di costruire un web che non sia dominato dalle grandi piattaforme. I social di questa galassia replicano in toto l’esperienza dei social famosi, con la sola differenza nel controllo e nella proprietà dei dati, lasciata quanto più possibile agli utenti.
La tecnologia è ancora grezza sotto vari punti di vista e si susseguono le storie di gaffe commesse dalla “intelligenza artificiale”. Se gli esperti sono cauti a parlare di rivoluzione, i tech enthusiast si sbilanciano parlando di un enorme cambiamento in vista. Nonostante i difetti e le controversie, questa tecnologia è qui per restare e, soprattutto, evolverà in fretta. Google e Microsoft stanno già facendo a gara (con la seconda in netto vantaggio) a integrarla nei loro motori di ricerca, e anche Meta sembra voler salire sul carrozzone, anche se non è ancora chiaro come.
Tra l’altro, quando si parla di intelligenze artificiali è inevitabile toccare delle corde delicate: dibattiti filosofici insoluti da decenni su cui si poggia tutta la teoria di questa materia. Prima domanda tra tutte: che cos’è l’intelligenza? A partire da ciò non è così assurdo chiedersi se ChatGPT sia davvero intelligente, o se per lo meno si comporti in modo intelligente. Con GPT3, siamo sicuramente ben lontani da poter affermare una cosa del genere, anche se per GPT4 le promesse sono enormi. Secondo Open AI, l’organizzazione che ha creato GPT, questa versione mostrerebbe segni di intelligenza generale, ovvero la capacità di risolvere potenzialmente qualunque problema.
Un Internet dove interagiamo con intelligenze artificiali è una strada tanto ovvia quanto al di fuori delle proposte del WEB3. Anche in questo caso, sono sempre i grandi attori dell’attuale rete a farsi protagonisti del cambiamento, plasmandolo. Questo dipende non solo dalla volontà di queste aziende di restare al passo, ma anche da quella di mantenere il loro ruolo. Per allenare questo tipo di tecnologie è necessario disporre di una potenza di calcolo enorme, soprattutto se si intende farlo a scopo commerciale, e quindi per un periodo di tempo indefinito.
Soprattutto quando parliamo di prodotti cognitivi, come può essere un algoritmo, è inevitabile riflettere le idee politiche e la forma mentis non tanto dei singoli progettisti, quanto delle società che li creano. Se le intelligenze artificiali si rivelano razziste è perché apprendono e imitano una società altrettanto razzista, spesso portando all’estremo quelle componenti sociali che cerchiamo di nascondere. Non è un caso se le DAO per ora rimangono uno strumento teorico. Per quanto si possa cercare di eliminare la componente umana, rendendo algoritmico e quindi prevedibile il processo decisionale, non è possibile eliminare la componente umana intrinseca negli algoritmi.
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