Il padreterno è liberale (Piemme 2022) è il titolo del libro-dialogo tra Nicola Porro e Antonio Martino. Il volume nasce come omaggio postumo al grande studioso del liberalismo in Italia e presenta diversi episodi e aneddoti del professore siciliano.
Conservatore e liberale laico, antiproibizionista ma non anticlericale, Antonio Martino conosceva bene il mondo del liberalismo americano, del liberismo economico e dello Stato minimo, nonché i rischi che corrono le libertà. Indossava le cravatte di Hermès, i regimental targati Adam Smith e il panciotto cavouriano. Era figlio di Gaetano Martino, già presidente del Parlamento europeo, poi ministro e rettore dell’università di Messina. Qui studiò anche il giovane Antonio, che si laureò in giurisprudenza, con una tesi anti-keynesiana. Il professore che gliela aveva assegnata era Bruno Jossa, uno dei più grandi conoscitori delle teorie keynesiane in Italia. Poi andò a Chicago per perfezionare il suo inglese. Appena ventitreenne, bussò alla porta del Nobel Milton Friedman, che lo accolse in ufficio mentre se ne stava con i piedi sul tavolo. Era l’inizio di un’amicizia che durò tutta la vita. Martino rimase affascinato dagli Stati Uniti.
Il padreterno è liberale tocca diversi temi, tra cui le differenze tra le economie italiane e anglo-americane negli anni Ottanta. Roma non copiò i modelli economici di Washington e Londra, come Antonio Martino avrebbe auspicato. L’Italia veniva dall’esperienza fascista che accentuò l’intervento pubblico in tutto il settore economico e industriale (IRI), credito (IMI), pensioni (INPS), petrolchimica (ANIC), assicurazioni (INA). Eppure, dopo la guerra c’era un buon humus liberale per aiutare il paese a rinascere. Sia Alcide De Gasperi che Luigi Einaudi erano anticomunisti e antifascisti. Tuttavia, il numero dei dipendenti pubblici è aumentato come risorsa per creare consenso politico. Al ventennio mussoliniano si sommò quello statalista.
Nel 1950, ricorda Martino, il deficit era di 401 miliardi (4,3 per cento del PIL), poi al 3.222 del 1970 (5,1), poi al 34.508 del 1980 (8,9) fino a 152.726 del 1993 (9,8). La sinistra Dc, scrive Porro:
«Incoraggiava, in nome del solidarismo cristiano, l’accordo reciproco tra lavoratori e datori di lavoro, condannava come ingiusta una eccessiva sperequazione della ricchezza, ammetteva l’intervento dello stato a tutela dei lavoratori […]. Fu questa “santa alleanza” a dominare materialmente la redazione della Costituzione. I liberali riuscirono a far riconoscere il diritto di proprietà – articolo 42, ben lontano dal nucleo dei principi fondamentali».
Martino rappresentava forse la voce più autorevole del liberalismo moderno in Italia. Ma criticò sempre il Partito Liberale. Ne ripercorre la segreteria del mostro sacro, Giovanni Malagodi, dal 1950 al 1972.
«Malagodi era stato liberale nel 1963, quando fece una battaglia contro il centrosinistra coerente, efficace e ammirevole. Poi l’Assolombarda, che lo aveva finanziato, lo mollò perché non riuscì a debellare il centrosinistra. Indignato, cominciò a spostarsi a sinistra, sempre più a sinistra. Alla fine, era più a sinistra della sinistra. Io una volta lo definii socialista e lui se ne ebbe a male, pensando che volessi offenderlo».
È nei circoli del Pli che Martino iniziò la sua battaglia contro il cuneo fiscale che ha contribuito a creare distorsioni dell’uso di risorse pubbliche e corruzione. Alfredo Biondi, segretario dal 1980 al 1986, venne scalzato da Renato Altissimo. Martino si è sempre opposto allo statalismo.
«Il fatto è che le buone intenzioni in economia producono risultati pessimi. I poveri sono stati molto più efficacemente aiutati dall’avidità dei grandi capitalisti […] che non dai nobili sentimenti degli altruisti».
E ancora:
«La generosità, l’altruismo e la solidarietà sono al tempo stesso nobili virtù individuali e pessima politica economica».
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Prima di accettare da Silvio Berlusconi l’incarico di entrare nel governo nel 1994, ricorda Martino:
«Chiamai Friedman per chiedergli consiglio su cosa fare. […] Milton mi disse: “Antonio, tu all’università non hai mai dovuto fare compromessi. In politica dovrai farne. Fanne pure, ma falli sui dettagli, non sui principi” […]. Travolto dalla gravità delle sue parole, mi dimenticai di chiedergli cosa intendesse per “dettagli” e cosa per “principi”. […] Dopo un po’ realizzai che per me i principi erano le cose che più avevo a cuore. E mi resi conto che la cosa che più mi stava a cuore […] era la mia credibilità di economista liberale. Fu in quel momento che decisi di non accettare, per nessuna ragione, nessun dicastero economico. Perché se lo avessi fatto avrei dovuto fare compromessi».
Gli scettici vedevano in Forza Italia il “partito di plastica”. Martino vedeva la possibilità di realizzare di un grande partito liberale: si sbagliava di grosso. Allora si ponevano i problemi della destra post-fascista di Gianfranco Fini e della deriva indipendentista di Umberto Bossi.
«Il panorama politico italiano prima di Berlusconi era un coro a una voce sola: statalismo fascista, statalismo comunista, statalismo cattocomunista, tutti statalisti».
Tuttavia, al governo Berlusconi non seguì una politica liberale. Le liberalizzazioni in Italia sono associate a Pierluigi Bersani. Ministro degli Esteri con Berlusconi, Martino scherzava dicendo che aveva accettato quel dicastero perché era più vicino a casa sua e aveva un parcheggio più grande. Martino era affezionato alla vita e alla polemica. Una pratica che ingaggiò varie volte con Norberto Bobbio, Umberto Eco, Mario Monti.
Non gli piaceva neppure Mario Draghi, allievo di Franco Modigliani e Federico Caffè. Ironia della sorte, fu proprio Gaetano Martino ad agevolare la carriera universitaria di Caffè, tramite una lettera al rettore dell’università di Messina. In conclusione d’opera, definisce il liberismo come uno stile di vita.
«A questo serve il liberismo. A permettere alle persone di essere libere. Di scegliere, sempre, quello che ritengono meglio per loro. […] L’essenza dell’umanità è proprio questo: la scelta. Ogni giorno, un uomo libero, si alza al mattino e può scegliere cosa essere e come essere. Libertà e responsabilità. Non c’è altro».
Antonio Martino si definiva così:
«Sono favorevole a qualsiasi provvedimento accresca le libertà personali, quindi sono reazionario per recuperare libertà che sono state perdute, conservatore per difendere libertà ancora esistenti, rivoluzionario quando la situazione non ci consente altra via per tornare liberi, progressista sempre perché senza libertà non c’è progresso».