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Spettacolo

Un giorno come un altro. Shirley Jackson tra meschinità e clemenza

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Francesco Spagnol

E credo anch’io che fosse magia, tutto quanto – anche se non posso dirlo con certezza. O meglio, tutto quanto tranne la partita in cui la mia squadra batté i Nine-Man Wonders. Ero io il lanciatore, e dunque lo so.

Shirley Jackson, Magia di famiglia

Se questa citazione, posta in chiusura di uno dei racconti più belli della raccolta, suona strana quando viene attribuita a Shirley Jackson, probabilmente la causa è il fraintendimento cui la scrittrice americana va incontro da anni, e soprattutto a partire dall’ottobre del 2018.

Shirley Jackson

Un giorno come un altro (2022) è l’ultima aggiunta all’ormai corposa, e sempre in crescita, schiera di opere di Shirley Jackson (1916-1965) che sono state tradotte e pubblicate in Italia da Adelphi. Uscito nel novembre scorso, fa da complemento a La luna di miele di Mrs. Smith (2020), dal momento che le due opere sono in realtà la prima e la seconda parte di un unico volume, uscito negli Stati Uniti per Bantam Books (Random House) nel 1996 con il titolo di Just an Ordinary Day.

Shirley Jackson

Prima di entrare nel merito di questa scelta e analizzare il volume, sarà bene esaminare rapidamente la fortuna di Jackson nel nostro Paese: una fortuna che, volendo ridurla ai minimi termini, si può ricondurre alla doppia azione di Adelphi e di Netflix. Trascureremo per ragioni di spazio i tentativi precedenti di portare in Italia Shirley Jackson, anche perché questi si limitarono solo ai due romanzi principali a opera di SIAD e Mondadori, unici casi in cui la traduzione di Adelphi è in realtà una ritraduzione.

L’operazione di Adelphi

L’accelerazione messa in atto da Adelphi nel tradurre Shirley Jackson (con ben cinque titoli pubblicati negli ultimi cinque anni) è sintomatica del crescente interesse per l’autrice statunitense, morta nel 1965, che negli ultimi tempi sta vivendo una seconda ondata di successo postumo. Adelphi aveva dato il via a questa avventura nei primi anni Duemila, portando in Italia i suoi capolavori di maggiore fama, ma ai tempi il ritmo di uscita era decisamente più cauto. L’impresa adelphiana ha inizio infatti con L’incubo di Hill House (2004), La lotteria (2007) e Abbiamo sempre vissuto nel castello (2009), ossia i due romanzi più noti intervallati da una raccolta di quattro racconti.

Alcuni anni dopo riprende con la traduzione del romanzo Lizzie (2014) e delle raccolte di racconti Paranoia (2018) e La ragazza scomparsa (2019). Quindi è il turno della succitata raccolta La luna di miele di Mrs. Smith, del romanzo La meridiana (2021) e infine della raccolta Un giorno come un altro. Il bilancio dunque, si è sempre mantenuto all’incirca pari, tra romanzi e raccolte di storie brevi, anche se negli ultimi tempi l’ago della bilancia sembra spostarsi a favore dei racconti. Il che non è un male, come vedremo.

La serie Netflix

Sì, perché se anche è innegabile che i veri capolavori di Shirley Jackson siano i primi due romanzi pubblicati da Adelphi, conoscerla solo tramite quella coppia di lavori rischia di precludere a chi l’avvicinasse per la prima volta un’ampia parte della sua opera, non meno meritevole. E qui entra in gioco il grosso fraintendimento di cui Jackson soffre da tempo, in parte per via di chi – come Neil Gaiman o Stephen King – l’ha sempre lodata come autrice di horror gotico, in parte a causa della serie antologica distribuita da Netflix alcuni anni fa, The Haunting of Hill House (2018).

The Haunting of Hill House

Proprio quest’ultimo prodotto audiovisivo ha da un lato il merito di aver portato davvero all’attenzione del grande pubblico il nome di Shirley Jackson, ma dall’altro è colpevole di aver stravolto il significato profondo e stratificato del romanzo. Pur essendo una serie ben fatta e di grande godibilità, infatti, vira fin dall’inizio sull’horror più tipico che si possa immaginare, non conservando pressoché nulla del materiale originario. Niente di tragico, e anzi il risultato è del tutto apprezzabile, ma anche per questo sarà bene fare un po’ di chiarezza a beneficio di chi si trovasse tra le mani gli ultimi volumi di Jackson dopo averla conosciuta tramite la serie TV. Soprattutto perché il titolo che stiamo recensendo è quanto di più lontano da quello che i nuovi arrivati potrebbero aspettarsi.

Shirley Jackson, Un giorno come un altro

L’ultimo titolo portato in Italia da Adelphi, si diceva, è la raccolta Un giorno come un altro, una collezione di ventidue racconti (più un epilogo) che in origine erano apparsi per Bantam Books col titolo Just an Ordinary Day. L’originale comprendeva in realtà molti più testi, diviso com’era in due parti: la prima, Unpublished Stories, conteneva trentuno racconti del tutto inediti, mentre la seconda, Uncollected Stories, era fatta di ventidue racconti che erano stati sì pubblicati su riviste, ma che ancora non erano mai stati raccolti in un libro. Adelphi si era già occupata della prima parte nel 2020 (La luna di miele di Mrs. Smith), mentre nel 2022 si è concentrata sulla seconda, affidando di nuovo la traduzione a Simona Vinci.

Come risulta comprensibile, vista l’origine miscellanea dei racconti qui presentati, la raccolta è tutt’altro che uniforme. Non possiamo mancare di registrare alcuni motivi fondamentali, certo, giacché si tratta pur sempre di una penna ben riconoscibile che in un modo o nell’altro finisce per vergare sempre nello stesso solco. D’altra parte, quando si parla di mancata uniformità, si fa riferimento allo stile adottato, più che ai macrotemi.

Abbiamo quindi da un lato contesti ricorrenti e tematiche stabili, dall’altro una notevole variazione relativamente al registro, al sottotono, al punto di vista e in definitiva al messaggio che Jackson affida ai suoi racconti. E questo messaggio, che può assumere una qualsiasi sfumatura dal pieno ottimismo allo sconforto più nero, varia in base alla natura del periodico di destinazione. Ad accogliere i suoi racconti infatti sono state tanto riviste letterarie blasonate come The New Yorker, quanto riviste più popolari, e magari riservate alle signore, come Ladies’ Home Journal, il tutto passando per Vogue e Playboy. È un aspetto piuttosto importante, che purtroppo nell’edizione Adelphi non viene segnalato, ma che è possibile recuperare dall’originale per chi fosse curioso.

Rapportando ogni storia al suo pubblico di riferimento, dunque, diventa di colpo comprensibile una tale varietà di approcci, che spaziano dal più frivolo disimpegno (Storia di due brave persone) alla denuncia sociale (Si spegne una gran voce). Il tutto a prescindere dal tenore, variabile in maniera del tutto indipendente dal placido al conturbante: aspetti che, stavolta sì, associamo comunemente alla Jackson più nota.

Tematiche ricorrenti

Conoscendo la provenienza dei racconti, dicevamo, non stupisce l’assenza di una struttura coerente: si tratta in effetti di brevi episodi che erano stati pensati non tanto per una pubblicazione unitaria, quanto per apparire su riviste molto diverse per impostazione e contenuto. Nondimeno, i temi affrontati sono per lo più sempre quelli cui Jakson ci ha abituati. Prima di tutto la piccola comunità, la cittadina statunitense degli anni Quaranta che abbiamo conosciuto ne La lotteria, con tutto ciò che una comunità simile comporta: pettegolezzi, pigri arroccamenti contro i nuovi arrivati, disprezzo per il diverso e meschinità di ogni genere e grado.

La lotteria (graphic novel)

E poi il femminile e il femminismo, visto che in buona parte dei racconti il personaggio principale (o il narratore) è una signora di età variabile, e visto che l’autrice aveva ben chiara la condizione femminile dell’epoca. E naturalmente il quotidiano, in tutti i suoi aspetti più insignificanti e vitali: compere nei negozi, semplici spostamenti in bus o in treno, lettere spedite tra vicine di casa, piccole liti e incomprensioni che si ingigantiscono oltremisura. Altri temi ricorrenti sono quelli dell’economia, nel senso proprio di gestione della casa o delle finanze famigliari, che si esplicano tra contrattazioni, compere, baratti e furtarelli.

Alle tematiche che ritornano vanno aggiunti anche certi teatri d’azione specifici, che sono a ben rifletterci quelli più familiari alla stessa Jackson. In ordine di importanza, e anche di allontanamento progressivo dal nucleo, troviamo la casa, focolare domestico ma anche prigione dove la donna americana di metà del secolo era costretta, la comunità di vicini con i relativi rapporti (per lo più di comodo e di ipocrisia), e infine la cittadina nella sua interezza, che spesso rimane sullo sfondo.

Cenni biografici e loro effetti sulla scrittura

Quanto alla natura dei suoi scritti, sarà bene tenere a mente la vita di Shirley Jackson se si desidera comprendere le sue scelte stilistiche e tematiche. Stiamo parlando di una scrittrice profondamente infelice, segnata dai traumi famigliari e dall’infedeltà coniugale, che patì di agorafobia, nevrosi e ansia. Si diede spesso all’abuso di alcolici e tranquillanti, fino a morire di insufficienza cardiaca prima dei cinquant’anni.

Parliamo di un’autrice che, pure dopo aver raggiunto il successo, soleva definirsi con ironia amara «una casalinga» (e su questo si veda anche l’epilogo della raccolta, Fama). Insultata e ripudiata dalla madre per il suo aspetto fisico, visse costretta in un matrimonio che dapprima vedeva come salvifico (sposò un intellettuale ebreo, pur provenendo da una famiglia conservatrice e antisemitica) ma che presto aveva finito per deluderla. Insomma, se si conosce un minimo la sua storia, non si stenta a capire come gli orrori che mette in scena siano né più né meno le mestizie e le miserie della condizione umana, e soprattutto femminile: proprio quelle che aveva vissuto per buona parte della vita sulla propria pelle. Tutt’altro, insomma, rispetto agli elementi che comunemente noi associamo al genere cosiddetto horror.

Destreggiandosi lungo il confine discreto tra quotidiano e inatteso, Shirley Jackson si dimostra una tra le maggiori narratrici delle miserie umane, quelle più banali e contingenti, e questo è vero soprattutto nelle forme brevi. Considerata erroneamente una scrittrice gotica, è innanzitutto un’autrice che riesce a filtrare la sua esperienza di donna americana di metà del Novecento in una serie mirabile di piccoli ritratti, ciascuno perfettamente cesellato, essenziale, senza mai una frase di troppo.

Ogni racconto colpisce a segno, a modo suo, ma non significa che tutti quanti lascino ferite. Non si tratta appunto di horror come lo intendiamo in genere, anzi: in diversi casi, all’interno di questa raccolta, manca del tutto l’elemento del male (si pensi alla citazione in incipit). Se parliamo poi di sovrannaturale e di magico, allora il computo scende ancor più, e i racconti che mostrano esplicitamente fantasmi o altri elementi simili si possono contare sulle dita di una mano. Ma quanto è presente allora la magia?

La magia per Shirley Jackson, nel bene e nel male

Volendo iniziare con l’affrontare l’elemento fantastico, tra le storie propriamente magiche non possiamo non citare la coppia costituita da Magia di famiglia e La strana casa accanto, due racconti accomunati dall’indimenticabile governante Mallie, uno tra i personaggi più riusciti della sua intera produzione. Sorta di Mary Poppins a metà strada tra tata e fata madrina, nonché sogno di ogni casalinga, Mallie prende sotto la sua ala protettrice la famiglia di turno e partecipa all’educazione dei figli e al rafforzamento dei legami interni.

Su un lato più oscuro, invece, spiccano senz’altro Casa, che vede una giovane coppia di sposi appena trasferiti in un nuovo paese alle prese con gli unici veri fantasmi di tutta la raccolta, e Ha detto solo sì, dove una bambina che ha appena perso i genitori non si scompone alla notizia, dal momento che già l’aveva prevista, e anzi procede imperturbata con l’elencare una serie di altri avvenimenti futuri con certezza disarmante.

Il perturbante e la meschinità del vivere

La magia però non risulta soddisfacente come lente per studiare quest’opera così stratificata, perché oltre a elencare i racconti in cui l’elemento fantastico sbuca con più o meno evidenza non è dato spingersi. Sarà meglio allora concentrarsi sul perturbante, quella qualità prodotta da sottigliezze e piccoli slittamenti di cui Shirley Jackson è una vera maestra. E che, soprattutto, raggiunge senza sforzo apparente né affettazione: per usare le parole di Stephen King, lo fa senza mai avere il «bisogno di alzare la voce».

Il bello del perturbante è che non necessita della presenza concreta del sovrannaturale: sopravvive e prolifera al di sotto di simili categorizzazioni. Ci sono infatti parecchi temi inquietanti che sbucano qua e là nel corso del libro, in maniera slegata e imprevedibile, dunque tanto più efficace. Possiamo trovare il primo esempio nel terzo racconto, Nei momenti bui, perfetto esemplare di storia che turba per sottrazione, senza mai lasciar avvicinare troppo i lettori alla matassa, ma lasciando intuire qualcosa che filtra orribilmente, disturbando l’apparente normalità dei primi due racconti. Ed è anche uno dei rari casi in cui esplode davvero il timor panico, che nella gran parte delle storie rimane piuttosto latente.

Lizzie

O anche la miglior storia di meschinità della raccolta, Le amiche, in cui una signora scopre che la sua migliore amica ha tradito il marito e non si fa crucci ad approfittare della sua posizione di forza, dando il via a una spirale viziosa. Così pure Si spegne una grande voce, forse il racconto che più stona nella raccolta se ci si limita all’ambientazione, ma che d’altra parte costituisce anche un esempio chiarissimo della miseria insita nell’essere umano che Jackson è tanto abile a tratteggiare, e che in questo caso si manifesta nel desiderio di mettersi in mostra anche davanti alla morte di qualcun altro.

E di nuovo, proprio alla fine della raccolta, il potentissimo La possibilità del male, la cui protagonista è ancora una volta una donna americana di mezza età, casalinga, amata dalle vicine e ben inserita nel contesto sociale della sua cittadina. Ma naturalmente dev’esserci qualcosa che devia, e stavolta questo qualcosa prende la forma delle missive che la signora spedisce anonimamente alle altre famiglie, con il solo obiettivo apparente di creare scompiglio e generare acrimonia, salvo poi piangere lacrime di coccodrillo quando, alla fine, il male compiuto le si ritorce contro.

La bontà d’animo

D’altra parte, ci sono anche racconti che sanno unicamente di buono, che mostrano un nucleo famigliare (o persino un’intera comunità di vicinato) del tutto funzionali, dove i bambini o i cittadini sono felici e realizzati. Tra questi ricordiamo Sola in una tana di lupetti, dove una neoeletta Mamma Lupa si fa in quattro per ospitare la truppa di scout di cui fa parte anche il figlio, e Devo, dove una signora s’inventa una sorta di sistema basato sul baratto che finisce per migliorare i rapporti tra vicini e rinforzare i legami sociali della cittadina. Oppure anche Storia di due brave persone, dove un ragazzo e una ragazza che abitano l’uno di fronte all’altra iniziano a litigare per una serie crescente di incomprensioni, ma alla fine si scoprono innamorati e nel chiarire l’equivoco si sposano.

Il miglior racconto sul versante “luminoso” della raccolta, però, è forse Viaggio con signora, che vede un bambino di nove anni prendere il treno da solo per la prima volta, diretto dai nonni per le vacanze estive. Basterebbero già le pagine di apertura, in cui il bambino si gode il viaggio in solitudine, con i suoi bravi fumetti e la tavoletta di cioccolato, per farne un racconto indimenticabile, ma il meglio arriva quando accanto a lui si sistema una giovane signora che ha l’aria di nascondere qualcosa…

Notevole, a tal proposito, è la sua abilità di mettersi nei panni dei bambini, cogliendo lo spirito e i sentimenti dell’infanzia in maniera quanto mai delicata e centrata. Senza dubbio, il fatto di aver cresciuto ben quattro figli ha aiutato, rendendo fertile e coltivando la sua immaginazione: non a caso, la sua carriera da scrittrice decollò davvero solo dopo che divenne madre. Se da un lato il fatto di avere figli e vivere da casalinga poteva essere mal visto, all’interno dei circoli letterari bohémien che lei e il marito frequentavano, dall’altro la maternità è stata parte fondante della Shirley Jackson che conosciamo.

Una lente interpretativa

Nel perturbante e nel rassicurante, allora, è già possibile avvicinarsi di un passo al senso dell’opera, ma il vero punto di svolta per capire a fondo l’operazione messa in atto da Shirley Jackson è riflettere bene su quali siano gli orrori di cui ci parla. Perché spesso, anche quando l’orrore sembra evidente, è molto peggio quello che c’è dietro, o intorno.

Due esempi lampanti di questo mascheramento sono Ha detto solo sì e Casa. Abbiamo già trattato a grandi linee le due trame, ma da un’analisi più approfondita si può riscontrare come il vero orrore, nel primo racconto, non sia nell’imperturbabilità della piccola Cassandra davanti alla notizia della morte dei genitori, e neppure nella sua inquietante sfilza di previsioni funeste. Piuttosto, è nell’ipocrisia della vicina di casa, la narratrice, che anche in un simile momento di lutto non può fare a meno di ragionare come è abituata a ragionare, ossia con calcolo, né di applicare i suoi soliti metri di giudizio, condannando senza pietà e assolvendosi con leggerezza.

Similmente, nel secondo racconto, l’orrore non sta certo nella presenza di fantasmi (che anzi sembrano quasi fuori posto), e neppure nell’incidente d’auto che la protagonista subisce a causa loro. Semmai, sta nell’ostilità più gretta e stolida che gli abitanti del villaggio riservano alla coppia di sposini, un’ostilità che si maschera di motivi nobili, come il mantenimento delle tradizioni, ma che si rivela in fondo null’altro che pura esclusività e paura del diverso. Una condizione che, ancora una volta, Shirley Jackson ha provato sulla sua pelle nell’essere additata dai vicini per le tendenze filocomuniste del marito, perché teneva feste in casa e per il fatto che parlasse con il gatto. E che, non per niente, è presente fin dal principio, in quello che è forse il suo racconto più famoso, La lotteria, così come nell’ancora inedito (in Italia) The Summer People.

La lotteria

Il bene nel male e il male nel bene

In definitiva, pur avendo provato a dar conto delle tante contraddizioni che attraversano il volume, rimane la consapevolezza che quest’ultimo, per sua stessa natura, si ribelli a ogni tentativo di classificazione. Troppo diversi e numerosi sono i periodici su cui ai tempi uscirono i racconti, troppo vasto il lasso di tempo interessato (oltre vent’anni, 1943-1965), e troppo stratificati i significati per consentire un’analisi unitaria.

Un giorno come un altro si presta a tante diverse analisi: potremmo contrapporre i racconti magici a quelli quotidiani, o confrontare quelli che presentano elementi tipici della letteratura dell’orrore con quelli che invece innovano la materia, o ancora studiare come, in base alla rivista di destinazione, Shirley Jackson dosasse con abilità le inquietudini che era capace di evocare. D’altronde, pur essendo diventata con gli anni anche la sua formula personale di escapismo da una vita infelice, soprattutto all’inizio la scrittura era un lavoro che le serviva per guadagnare uno stipendio, e rendersi così indipendente all’interno del suo matrimonio.

Se c’è una cosa che è possibile sottolineare, però, è come tutte queste modalità di analisi si fondino sulla contraddizione insita nell’essere umano, che è capace tanto di gesti caritatevoli come in La cosa più straordinaria, quanto di azioni rivoltanti come in La possibilità del male. Prima ancora che tra magico e reale, o tra perturbante e quotidiano, è tra bene e male che si gioca il tutto. Una compresenza di luce e ombra, insomma, è la vera lente con cui affrontare Shirley Jackson, consapevole al pari di pochi altri di come l’umanità si esprima tanto nella carità, quanto nel livore.

E alcuni dei racconti più riusciti della raccolta si fondano proprio su questa compresenza, e sul mescolamento imprevedibile di bene e male. Si pensi a Come Charlotte uscì di scena, dove una serie di atteggiamenti all’apparenza caritatevoli assumono nel finale tutt’altra rilevanza, e a Devo, che esplora il ribaltamento di una punizione rivolta da una signora in pensione a un bambino che le ha calpestato l’orto. A ben pensarci, però, è il racconto che dà il titolo al libro quello che maggiormente si fa portatore della compenetrazione tra bene e male, e del loro imprevedibile mischiarsi: Un giorno come un altro, con le noccioline illustra precisamente la casualità dell’agire umano, al di là di ogni possibile spiegazione logica.

È così e basta

Il senso che si dà alle cose conta più delle cose stesse, sembrano chiosare i suoi racconti, e questo è evidente in particolar modo nel dittico composto da Magia di famiglia e La strana casa accanto. È qui, infatti, che una situazione quanto mai affine (la tata-madrina Mallie che si presenta davanti a una famiglia bisognosa e offre i propri magici servigi) prende due pieghe che non potrebbero essere più diverse. E se lo fa è solo per il diverso punto di vista assunto dal narratore: nel primo caso è un bambino della famiglia assistita, che vive la magia con curiosità ed entusiasmo, nel secondo caso è una vicina pettegola, che si rapporta davanti al diverso con fare bigotto e giudicante.

Uno scontro tra punti di vista che, se ci si riflette, non è mai del tutto assente neppure nei suoi due romanzi più noti, i già citati capolavori L’incubo di Hill House e Abbiamo sempre vissuto nel castello. La bontà e la meschinità dell’essere umano sono due facce della stessa medaglia, e sono a tal punto intrecciate che non è più possibile separarle. Di più: quando si parla di orrori, sono sempre orrori integrali all’uomo, persino necessari, motivo per cui non viene mai né fornito un giudizio, né tanto meno suggerita una soluzione. È così e basta, sembra dirci Shirley Jackson.

Dark Tales

Scoprire Shirley Jackson

Sono, questi, solo alcuni esempi di quello che i lettori potranno trovare in Un giorno come un altro. E se, nonostante le premesse, abbiamo parlato di orrore più del previsto, questo non stupisca troppo. Se è vero che Shirley Jackson non è un’autrice horror, ciò non toglie che, in virtù della sua specifica esperienza di vita, renda il massimo proprio quando può dedicarsi a smascherare le meschinità umane, che mette alla berlina in maniera così schietta e onesta da non poter che attirarsi, suo malgrado, la nomea di autrice horror.

È però il caso di ribadire come Shirley Jackson, al di là di qualsiasi classificazione, sia una scrittrice di profondo valore letterario e culturale, in grado di offrire anche a noi lettori di settant’anni dopo uno spaccato turpe e sincero della realtà provinciale statunitense di metà del secolo scorso. Non solo: Jackson si riconferma, a prescindere dalla forma adottata e dal pubblico di riferimento, una vera maestra nel narrare l’inquietudine e il disagio insiti nell’uomo, il che – ed è la cosa più importante – garantisce un’esperienza di lettura appagante, ben prima di qualsiasi analisi verbosa e affettata.

Rimane comunque l’invito, diretto ai nuovi lettori, a iniziare questo viaggio partendo dai primi titoli tradotti da Adelphi, confidando nelle loro scelte editoriali, e di avventurarsi solo in seguito nelle ultime raccolte, in modo da arrivare gradualmente e senza troppi sbalzi a conoscere le opere di questa meravigliosa gemma della letteratura americana del secolo scorso.

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