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Curiosità

Il 9° Col Moschin, insieme all’incursore Renato Daretti

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Marco Capriglio

Della Folgore l’impeto

Motto del Col Moschin

Chi non ha mai visto, magari in un film, i “berretti verdi” o i Navy SEALs americani? Questi uomini particolarmente addestrati sono detti incursori, ovvero militari brevettati capaci di operare in qualsiasi tipo di condizione o scenario. Qualche mese fa, abbiamo incontrato il Comandante Alfa, il “cuore di rondine” del GIS dell’Arma dei Carabinieri, ma il nostro viaggio non si ferma qui.

In Italia le Forze Speciali, ovvero unità militari impiegate in azioni ad alto rischio, sono sei: oltre al già citato Gruppo Intervento Speciale dell’Arma, ci sono il 9º Reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin dell’Esercito Italiano, il Gruppo Operativo Incursori della Marina Militare e il 17° Stormo Incursori dell’Aeronautica Militare. A questi si aggiungono i ranger del 4º Reggimento alpini paracadutisti e gli acquisitori del 185° Reggimento paracadutisti Ricognizione e Acquisizione Obiettivi “Folgore”.

Leggi anche: Comandante Alfa, il “cuore di rondine” dei Carabinieri.

https://www.thewisemagazine.it/2022/10/08/comandante-alfa-cuore-di-rondine-carabinieri/

Per continuare il viaggio all’interno di questo mondo incredibile e forse fin troppo sconosciuto, oggi theWise Magazine ha incontrato l’incursore Renato Daretti, luogotenente in congedo del e presidente dell’Associazione Nazionale Incursori Esercito.

Un operatore del Col Moschin.
Tutte le foto utilizzate in questo articolo sono per gentile concessione del presidente Daretti.

Nelle sue parole e nella sua esperienza, cos’è il Col Moschin?

«Il Col Moschin, potendo azzardare un paragone, è quello che tanti anni fa nacque come un’azienda artigianale, di nicchia. Fondato nel 1953, i suoi scopi era quasi fantascientifici: l’ideatore coltivò una piccola compagnia di volontari paracadutisti che si sviluppò nel tempo, raccogliendo tutto quello che c’era di interessante nel campo della formazione e dell’addestramento.

Il Reggimento crebbe in un modo talmente veloce che arrivò a staccarsi nettamente dal resto dell’Esercito, che aveva mantenuto una concezione molto tradizionale. Sono state fatte esperienze in ogni instante della storia: il dopoguerra, il terrorismo, la guerra fredda e tutte le cosiddette operazioni di pace.

Questo bagaglio portò la piccola azienda a divenire un’eccellenza, che tutti provano a imitare senza riuscirci, mancando del know – how precedente e necessario».

Cos’è dunque un incursore? Come lo si diventa?

«L’incursore rappresenta il concetto più elevato e, se vogliamo, romantico della parola volontario, cioè quello che alza la mano e volontariamente decide di fare una cosa. E la fa con entusiasmo. Fin da subito, sempre facendo un paragone, decide di non voler giocare in un ruolo mediano, ma di essere una punta. Un incursore è un super volontario, insomma.

Lo si diventa soprattutto perché si hanno motivazione ed entusiasmo, con cui si superano i due anni di dura selezione. Con il senno del poi e con quarant’anni di esperienza nel Col Moschin, devo dire che i filtri si sono infittiti. Questo porta a un minor numero di arruolamenti. L’asticella è tenuta molto alta: meglio pochi, ma estremamente selezionati. Statisticamente, di cento che ne partono, ne arrivano in fondo una decina.

L’addestramento è, possiamo dire, al settanta per cento fisico e al trenta per cento teorico e tecnico: si studia sempre poiché le tecnologie sono sempre in evoluzione. Poi si passa alla Compagnia operativa, dove si metterà in pratica tutto ciò che si è imparato e dove si farà formazione continua».

Operatori in ambiente montano.

Cosa spinge un giovane militare a intraprendere questa strada?

«Nella storia, questo campanello si è sempre attivato nella testa dei giovani. C’è sempre stato un gruppo di persone che decideva di fare cose differenti dalla massa. Questo è accaduto, e accade, in ogni ambito: sportivo, esplorativo, tecnologico, scientifico e militare.

Chi si spinge verso gli incursori, come già detto, ha forza di volontà e motivazione. Onestamente posso dire che un percorso di questo tipo è intrapreso da chi cerca una spinta, un qualcosa in più che non trova nel mondo fuori. E logicamente ha una predisposizione verso i valori tipici di questa professione e verso l’avventura.

Non sono tante queste lampadine, ma quelle che ci sono alimentano le file del 9° Col Moschin, nonostante le generazioni cambino».

Può raccontarci qualche aneddoto, qualche ricordo di missione?

«Il 9° è pieno di aneddoti. Esso è composto da uomini che hanno vissuto (da soli, in coppia o in gruppo) esperienze sia di addestramento che operative, affrontando tutti gli ambienti possibili: acqua, montagna, lanci ad alta quota con procedura a ossigeno, maneggiando esplosivi e tanto altro. Nelle operazioni c’è capitato di tutto, considerando che il Col Moschin è stato presente tutte le volte che l’Italia ha alzato la mano. Siamo sempre arrivati per primi, aprendo la porta, e siamo sempre usciti per ultimi, chiudendola, garantendo la sicurezza di chi doveva uscire dal territorio.

Mi ricordo un particolare di un’esercitazione, che al Reggimento sono estremamente realistiche, con tanto di colpi ed esplosivi reali. Come osservatori di una di queste, erano venuti alti generali dello Stato maggiore. Uno di questi si avvicinò e ci chiese che “trucchetti” utilizzassimo per rendere tutto così reale. Quando gli spiegammo che tutto era vero e che non c’erano effetti speciali, egli mise a fuoco che per dieci minuti non aveva visto un’esercitazione, ma una vera e propria operazione sul campo».

Gli incursori in ambiente marino.

Ha mai avuto paura, magari prima di un lancio? Come l’ha affrontata?

«La paura c’è sempre e ci permette di mantenere al massimo la concentrazione e l’attenzione. La paura occupa uno spazio ampio durante l’azione di un soldato. Questa può trasformarsi in panico, che non permette di agire in modo razionale e, anzi, può portare a gravi errori per sé e per gli altri.

L’addestramento serve anche per mettere a fuoco il proprio stato emotivo, permettendo di mantenere un livello di paura accettabile che non sfoci mai nel panico. La paura c’è all’inizio. Pensiamo a chi si sta per lanciare da ottomila metri con procedura ad ossigeno per la prima volta: è un salto nel vuoto in tutti i sensi!

Un altro discorso è avvicinare un obiettivo, quando si va davvero in azione. La bellezza del tutto è il branco, che ti protegge e ti garantisce sicurezza. Il Distaccamento operativo, così si chiama in gergo, è composto da circa otto persone, addestrate e affiatate: tutti hanno paura, certo, ma vanno avanti e fanno quello che devono fare».

Nella sua carriera è stato anche istruttore, con allievi del calibro degli astronauti Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti. C’è più responsabilità nell’essere operativo o nell’addestrare chi lo sarà?

«Doverosamente devo precisare che gli astronauti, in un certo senso, rendono il lavoro più facile. Sono persone fuori dal comune, che hanno “due marcette in più”. Per una serie di motivi, capiscono molto in fretta cosa devono fare e altrettanto velocemente arrivano al risultato.

Detto questo, essere “istruttore di” parlando di qualcosa che si conosce bene e che si è vissuto regala molta soddisfazione. Siamo però in un contesto che, per quanto realistico, è comunque più sicuro e meno ostile del campo.

Essere operativo non concede troppo margine di trattativa: diciamo che sono due scenari ben diversi. Trovo ci sia molta più responsabilità in un comandante di Distaccamento che dirige le operazioni dei suoi uomini rispetto a un istruttore, magari anche di astronauti. Forse un giorno utilizzeranno gli insegnamenti ricevuti, ma saranno “filtrati” dalla loro intelligenza».

Ogni didascalia sarebbe superflua!

Oggi riveste la carica di presidente dell’Associazione Nazionale Incursori Esercito. Di che cosa si tratta? Quali sono le vostre finalità?

«L’incursore ha tendenza a guardare sia all’oggi che al domani, per ovvie ragioni. Spesso però ci si dimentica che alle spalle si ha una storia interessante e particolare.

L’associazione è fatta da persone che, come me, hanno lasciato l’attività operativa e continuano in vario modo a supportare il Reggimento. Tra gli scopi primari abbiamo quello di memoria storica e divulgazione tramite documentazione fotografica, cerimonie, conferenze e pubblicazioni.

La nostra storia parte dal 1953, ma abbiamo collegato anche quella del X Arditi della Seconda Guerra Mondiale e quella del IX Reparto d’assalto della Prima Guerra Mondiale».

Lasci un messaggio ai nostri lettori.

«Spero che, leggendo quest’intervista, qualche curioso vada sul web in cerca di ulteriori notizie. All’improvviso si può scoprire un aspetto interessante a cui rivolgere la propria attenzione, se non addirittura la propria scelta di vita».

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Marco Capriglio

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