A fine marzo è uscito, edito da Scatole Parlanti, l’ultimo libro di Gabriella La Rovere, Samuel, Murphy e io. Gabriella La Rovere è scrittrice, sceneggiatrice teatrale, giornalista, e medica. Collabora con il sito Per noi autistici, diretto da Gianluca Nicoletti.
Abbiamo incontrato l’autrice e ne è venuta fuori una bella chiacchierata che parte da Beckett per arrivare a parlare di letteratura, linguaggio, emozioni e autismo.
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«Probabilmente no, ma si può intuire anche solo leggendo le sue opere. La sua scrittura ha delle assonanze con quella di Borges, di Stanislaw Lem, di Philip K. Dick, tutti autori autistici».
«Borges è straordinario, assolutamente straordinario».
«Si è trovato perso ed è una cosa normale per una persona autistica, o neurodivergente come si dice adesso. È difficile essere compresi, trovare il modo per esprimere quello che si vuole dire. Poi lo stesso Murphy ha ricevuto quaranta e passa rifiuti di pubblicazione. Per uno scrittore, al di là della neurodivergenza o meno, non è piacevole. Perché uno sa di aver scritto una cosa interessante, riceve tanti rifiuti e tende ad andare in depressione. È una costante la depressione nelle persone neurodivergenti, soprattutto nelle ragazze».
«Lui deve tanto del suo successo a Suzanne Dechevaux-Dumesnil, compagna di una vita poi diventata sua moglie, che gli ha fatto un po’ da manager. Beckett era un tipo molto particolare. Faticava ad avere dei contatti e per farsi pubblicare occorre conoscere le persone. E lui non era in grado di farlo, a meno che non trovasse qualcuno che gli fosse molto affine, come la passione che aveva per Joyce. Doveva trovare un altro cervello come il suo con il quale interfacciarsi, con il quale poter dialogare, e non è possibile con le persone “normali”, tanto meno con gli editori. Quindi se non fosse stato per la moglie non ci sarebbe mai riuscito.
Beckett era un tipo che non andò a ritirare il premio Nobel, non gliene fregò più di tanto. Erano pochi quelli che conoscevano il suo valore. Lui sarebbe rimasto sconosciuto secondo me, senza di lei».
«Intanto è un romanzo, rispetto alla maggior parte della sua produzione, che sono opere teatrali e quant’altro. È un romanzo dove si parla di una persona autistica. Io analizzo tutta la letteratura classica, quella che abbiamo letto e straletto a scuola, alla ricerca di personaggi e di situazioni che possano far pensare che quella persona sia autistica. Ad esempio, Bartleby lo scrivano di Melville, quel personaggio è autistico. Lo straniero di Camus, il personaggio è autistico. Camus no. Ma andando poi a vedere la storia del romanzo, come è nato, si scopre che Camus si è ispirato a un suo amico “un po’ strano”.
Io sono incappata per caso in Murphy. Non è facile leggere Beckett. Ci ho messo veramente tanto. L’ho letto in maniera intensa, fermandomi passo passo, tre volte per intero. Più tutte le altre volte che sono andata a prendere appunti, lo sfogliavo, lo rileggevo. Beckett ha un modo di costruire le frasi che per noi è estraneo, però ha un suo fascino e un suo significato.
La cosa che mi aveva colpito subito è stata la sinossi: “Murphy era una persona che faceva di tutto per non fare niente. E poi alla fine, morendo perde questo suo tentativo di non fare niente, perché fa una cosa: muore”.
Ci sono tanti indizi che sono lampanti sulla sua neurodivergenza. Il fatto di legarsi alla sedia a dondolo per calmarsi, mi ha riportato alla mente la macchina degli abbracci di Temple Grandin.
Murphy mangia cinque biscotti, in un preciso ordine, tutti i giorni. E quando il cane glieli mangia, il mondo è tutto diverso, e non riesce quasi più a ritrovare sé stesso, si perde. Perché se uno è abituato nella routine a mangiare quei biscotti in quella maniera, perché gli dà la tranquillità, e viene disturbata la routine, lui non può terminare il ciclo».
«Stare immobile serviva a recuperare la tranquillità. Murphy, quando era particolarmente agitato, si metteva sulla sedia a dondolo.
Una persona neurodivergente ha una maggiore sensibilità sensoriale. La ricerca di tranquillità gli serviva per azzerare tutte le stimolazioni. Quando tutto quanto si azzera, si rilassano.
Nel finale del romanzo lui muore sulla sedia a dondolo per un incendio partito dal piano di sotto e non si capisce se scoppi da solo o se lui faccia in modo di provocarlo e di morire. Potrebbe essere perché la partita con Endon, il matto, lo disturba talmente tanto che non riesce più a ritrovare la tranquillità».
«Il libro finisce con lui che lascia detto di buttare le sue ceneri dentro al cesso dell’Abbey Theatre di Dublino. Credo che sia il finale migliore che potesse fare, era inevitabile. Ma a chi gli viene in mente? Un grande, Beckett, un grande anche solo ad averlo pensato».
«Essere completamente dissacratore anche verso qualcosa che non voglio dire religioso, però per le proprio ceneri si ha una sorta di rispetto, e dire: “Pigliatele e buttatele dentro al cesso…” penso che sia fantastico. Penso che qualche mio amico neurodivergente forse lo lascerà a memoria, secondo me».
«Sì, può essere un’idea».
«Secondo me quel personaggio non poteva uscire se non con la morte. Nel senso che per lui la vita era fare la passeggiata, mangiarsi i biscotti, tornarsene a casa, mettersi seduto e non fare niente oppure stare da solo. Invece, c’era la fidanzata che lo spingeva a trovare un lavoro, e a fare questo e a fare quest’altro, lui provava a essere come gli altri, ma non poteva essere come gli altri.
Pensa, poi, di aver trovato in Endon, nell’ospedale psichiatrico dove va a lavorare, una persona che gli assomiglia e inizialmente ne è affascinato. Fanno una partita a scacchi e Murphy pensa di riuscire a carpire da lui il segreto, qualcosa che lo possa aiutare, qualcosa che gli dia un significato.
In realtà, lui fa una partita a scacchi con un matto. Per quanto possa essere intelligente, è un matto. Murphy cerca di controbattere alle mosse, ma alla fine si rende conto che i movimenti del suo avversario, Endon, non sono niente. Non fa altro che portare gli scacchi prima tutti in avanti e poi tutti indietro. Quando capisce che non sta giocando a scacchi, si sente in qualche maniera beffato. Non ha capito manco questo, pensava di aver trovato un amico, invece manco quello.
Che può fare? Si può solo ammazzare. Non ha altra alternativa, se entriamo nella sua testa. Che puoi fare? Non puoi fare altro».
«La persona autistica prova tante emozioni. Alcune volte anche in maniera non controllata. Quello che forse non riescono a fare è mettersi nei panni degli altri. È anche vero che vedere la sofferenza crea in loro uno stato di agitazione, perché non sanno neanche in che modo aiutarti. Come in uno specchio, ti vedono agitato e si agitano anche loro. Quindi alla fine sei tu che poi devi andare in soccorso a loro per cercare di calmarli.
Questo è molto più evidente in persone autistiche a medio e basso funzionamento. Una persona Asperger man mano riesce ad adattarsi e a vivere nel mondo dei neurotipici, a gestire le emozioni e le relazioni. Certo, ci sono dei momenti in cui stanno per i fatti loro, però sono assolutamente inseriti nella società.
Invece l’incapacità di gestire le proprie emozioni e di essere travolti in un sistema di mirroring, di specchio, è tipica di coloro che hanno un ritardo cognitivo e che non riescono a comprendere cosa gli succede».
«È lui stesso che non riesce a esprimere le proprie emozioni. Lui è per le emozioni fondamentali. La gioia, l’incazzatura, il dolore, ed è finita lì. Non ci sono sfumature».
«Sì, il silenzio comunica. È una forma di comunicazione, perché non si parla solo con le parole».
«Noi tendiamo a occupare lo spazio vuoto con parole inutili; invece, tante volte il silenzio è significativo e significante. Quando ci si interfaccia con un neurodivergente, è un silenzio carico di significato. E siamo in difficoltà, non siamo abituati, perché nel silenzio tace tutto e dobbiamo stare con i nostri pensieri».
«Lui si metteva con le tapparelle abbassate, legato alla sedia a dondolo, in una situazione di benessere, con un clima adeguato, con la luce adeguata; quindi, tutte le stimolazioni sensoriali venivano annullate. E lui stava in serenità».
«Tendono a giocare con le parole, a utilizzare neologismi e creare parole completamente nuove che hanno il significato che vogliono dare. Quindi sono più atti a creare un tipo di linguaggio, di strutturazione della frase sui generis. Basti guardare come scrive Borges, che non è semplice».
«Ci tengo a dire che questo mio libro deve essere un inizio per poi prendersi Murphy e leggere Beckett. Un modo per guardare la neurodivergenza come una grande fucina di persone, situazioni, romanzi, una cosa realmente arricchente. Un contributo alla cultura importante. La riscoperta di autori.
Non vuole essere una cosa pesante, ma indurre la persona a continuare lo studio, se l’ho in qualche maniera stuzzicata. Io vorrei fare una divulgazione che sia scientifica, perché non posso scordare di essere un medico, però alla portata di tutti».
«Grazie a voi».
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