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Dal lungo inverno non ci salverà lo Stato

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Amedeo Gasparini

Ne Il lungo inverno (Mondadori) Federico Rampini passa in rassegna le crisi globali degli ultimi anni. Dalla pandemia alla guerra in Ucraina, fino alle loro conseguenze: inflazione, diseguaglianze e shock energetici. Si aggiungano anche gli squilibri demografici e le pressioni migratorie, ed ecco il lungo inverno. L’autore avverte, tuttavia, che non sarà lo Stato a salvare il pianeta e le economie. Non è facile distinguere fra crisi vere e false apocalissi, annunciate da profeti che hanno come solo interesse seminare la paura. Certo: non sono paure campate per aria. L’incertezza avvinghia tutto l’Occidente, vaso di coccio tra due vasi di ferro – Stati Uniti e Cina. Il rischio del lungo termine è che «alcuni di noi cercano un rifugio simile a quello offerto dai regimi autoritari: sempre più Stato, la protezione di una mano forte». L’autore trova molte analogie tra l’oggi e le crisi apocalittiche degli anni Settanta.

I problemi di approvvigionamento prima di un lungo inverno

Come allora, oggi si dà molto spazio a visioni eccessivamente allarmistiche e si sottovaluta l’economia di mercato. «Se non investi non produci, stai preparando nuove scarsità e nuovi focolai di inflazione», spiega Rampini, che dedica gran parte del libro alla questione energetica dovuta alla guerra in Ucraina. Il rifiuto ideologico del nucleare in gran parte dell’Occidente non lascia molte alternative di diversificazione energetica. Sono anni che Rampini ha preso posizioni critiche contro la sinistra autoreferenziale e il progressismo estremista. Contesta le teorie sul ruolo salvifico dell’immigrazione e denuncia l’assenza di realismo in ambito di costi annessi. Attacca i catastrofisti che inventano scarsità sulla scia di Robert Malthus e Karl Marx. Critica la MMT, che prevede lo stampaggio seriale di moneta: un gioco che non può ripetersi all’infinito.

Leggi anche: No al suicidio occidentale: è sbagliato processare la nostra storia.

L’aggressione russa ha comportato un lungo inverno anche in materia di derrate alimentari, minerali e metalli. Ma i problemi di approvvigionamento erano presenti anche prima. Ad esempio, l’Europa paga anni di politiche energetiche e di difesa sbagliate. Ci si aspetterebbe un cambio di rotta; e invece, molti chiedono a gran voce l’intervento dello Stato, tra vari recovery fund e piani di resilienza nazionali. Il cui obiettivo è solo la distribuzione massiccia di liquidità che serve a preservare le clientele politiche. «Uno Stato-mamma troppo invadente addormenta i riflessi vitali di tutti», avverte Rampini. Nel lungo inverno la strada del “più Stato” è scivolosa per tutti. Specialmente per l’Italia, «il Paese occidentale più vulnerabile alla tentazione statalista: per il suo debito pubblico già eccessivo; perché ha una burocrazia arrogante e invadente, ma inetta; perché una parte della sua popolazione ha introiettato l’assistenzialismo come unico orizzonte di vita». L’impero del male è sempre l’America. Il bianco è sempre colpevole. L’unica civiltà aggressiva è quella occidentale.

Abbiamo bisogno degli Stati Uniti?

Questo trittico auto-masochistico in Europa spalanca la porta all’autoritarismo sino-russo e assume ora le pulsioni no-vax, ora quelle xenofobe, ora il razzismo, ora l’antisemitismo. E tuttavia, l’Occidente sembra avere bisogno, nel lungo inverno, degli Stati Uniti. Il discorso Europa-difesa comune è datato: il dibattito sul due per cento del Pil allocato alla difesa è tornato attuale. Nel frattempo, l’ascesa cinese è lenta, ma inequivocabile. Il dollaro continua a dominare, ma le sanzioni contro la Russia potrebbero accelerare la “sdollarizzazione” nei paesi antioccidentali. L’Europa, ventre molle dell’Occidente, con i riflessi verso il disarmo facile, si avvia verso il lungo inverno che può trasformarsi anche nell’inverno della ragione, scrive Rampini. Il paragone con gli anni Settanta regge. Allora, nelle scuole italiane aleggiava l’allarmismo puro: i bambini resteranno al freddo nelle classi, si lamentavano i genitori. Era l’autunno del 1973, in piena guerra dello Yom Kippur.

17 ottobre 1973, inizia la crisi petrolifera.

L’OPEC quadruplicò il prezzo del petrolio e i Paesi occidentali dovettero assumere il razionamento dell’energia. Allora si inaugurarono le “domeniche a piedi”: gli industriali del Nord pagano i tassisti affinché spostassero in permanenza di fronte a casa loro a propria disposizione esclusiva. Tutto questo non si è verificato durante la pandemia né nei primi mesi di guerra in Ucraina. Ecco una falsa apocalisse. La realtà è che in Occidente la vita non è tanto cambiata rispetto a prima dell’invasione: lo stesso si potrebbe dire del coronavirus. Il lockdown è stato economicamente meno dannoso rispetto a quello che si prospettava. Andando indietro nel tempo, lo ricorda Tony Judt (Dopoguerra), nel 1945 la Gran Bretagna era più indebitata della Germania e dell’Italia. La sua economia era bancarotta non dichiarata, ma reale. Il Paese perse un quarto della sua ricchezza nazionale. Il razionamento del pane fu introdotto nel 1946 e durò due anni.

Tutto questo non si è riverificato ai nostri tempi. Eppure, «la nostra soglia di tolleranza al dolore, di sopportazione delle privazioni, si è abbassata paurosamente», ricorda Rampini. «Ogni crisi per noi diventa un’apocalisse. Abbiamo perduto a tal punto il senso delle proporzioni che neppure le immagini dei bombardamenti in Ucraina […] sono servite come un richiamo alla realtà […]. Gli interventi dello Stato per attutire l’impatto della nuova crisi energetica non sono mai sufficienti. “Pagano sempre i più deboli”, frasi ripetute all’infinito, a un sottointeso: siamo tutti deboli». Neppure le crisi energetiche del 1973 e 1979 furono l’apocalisse, nonostante il vittimismo e l’autocommiserazione, l’allarmismo, gli scioperi continui, fino all’inflazione a due cifre. Tuttavia, i mali vanno ricercati nell’incapacità degli Stati di far fronte alla crisi. Negli anni Settanta l’Italia non aveva una pubblica amministrazione efficiente per un paese occidentale.

Uno Stato poco moderno

La mancanza di modernizzazione, spiega Rampini, ha seminato le basi per le premesse delle patologie italiane: corruzione, clientelismo, assistenzialismo. Chi usava la violenza allora mascherava il camorrismo e il banditismo con la lotta di classe. Questo ha contribuito a spargere una cultura antimoderna, che ha lasciato l’Italia un Paese con gravi problemi di sviluppo. Inflazione, svalutazione e fuga dei capitali e cervelli hanno fatto il resto. Rampini accusa lo «Stato-pagatore, come macchina per costruire forme di consenso sociale, in sostituzione di un dinamismo privato a cui molte forze politiche e culturali guardavano con diffidenza». Lo Stato che pagava per silenziare e abolire la concorrenza. Creava corruttele e corporazioni economiche; e questo non ha fatto che smarrire ancora di più, in tutti i segmenti sociali, il senso dello Stato.

Leggi anche: Statosauri, quando il progresso tecnologico fa paura.

In un altro capitolo Rampini affronta la questione delle sanzioni e della loro efficacia. Nicholas Mulder (The Economic Weapon) ha spiegato di come queste fossero un’arma per costringere il nemico ad arrendersi. Le origini delle sanzioni sono da traversi nella Società delle Nazioni: ancora oggi hanno un effetto dissuasivo, ma per motivi politici sono spesso inefficaci. Nel 1935, mentre Londra e Parigi condannavano l’Italia per l’aggressione in Abissinia, l’embargo di forniture di petrolio non venne adottato giacché francesi e inglesi non volevano inimicarsi l’industria petrolifera americana. Neppure il canale di Suez venne chiuso alle navi italiane, visto che Londra non voleva venire a meno al principio di libertà di navigazione. Dal 1945 in poi, la visione secondo cui la pace andava favorita con la diffusione della prosperità economica doveva eliminare il rischio di guerre. Negli anni Ottanta, gli Stati Uniti volevano dissuadere gli europei dal costruire oleodotti i gasdotti con l’URSS; tuttavia, Londra e Berlino li convinsero a eliminare queste misure.

L’Europa ha continuato a rafforzare i suoi legami di dipendenza da Mosca. La Russia ha saputo coltivare buoni rapporti con l’OPEC. Allo scoppio della guerra in Ucraina l’organizzazione non ha aumentato la produzione di petrolio facendo calare i prezzi in maniera sostanziale. L’eccedenza del gas russo è stata distrutta nel mare del Nord, sotto cui il Nord Stream veniva chiuso. Alla fine dell’estate 2022 era operativo solo per il quaranta per cento rispetto alla capacità massima; poi la chiusura totale. Questo ha obbligato i Paesi occidentali a trovare soluzioni alternative al gas russo. Il petrolio che Putin non riesce più a vendere ai Paesi occidentali ha trovato nuovi clienti, sebbene a prezzi scontati. Il petrolio viaggia bene nelle navi, mentre il gas deve essere liquefatto e poi rigassificato per essere trasportato. Da qui la difficoltà a reperirlo e a farlo viaggiare in Europa.

No al fracking

Dagli anni Settanta, l’URSS del tempo si era guadagnata, ricorda Rampini, una buona fama in merito alla fornitura energetica all’Europa in maniera affidabile. La Germania da allora ha impostato il suo modello economico sul gas russo a buon mercato. Ed è diventata ricattabile. La stigmatizzazione del fracking, nato nel 1947 negli Stati Uniti, ha obbligato Berlino a gettarsi tra le braccia di Mosca. L’opinione pubblica tedesca era convinta che il fracking fosse pericoloso per la salute: ad alimentare l’allarmismo sul fracking c’era Russia Today. E il governo di Angela Merkel lo mise fuorilegge. Fu anche la complicità, così da definisce Rampini, di Gerhard Schröder e dei Verdi a contribuire alla dipendenza tedesca dalla Russia. La Germania avrebbe molto gas sottoterra, ma non lo usa. Le rinnovabili celebrate dai Verdi sono meno pulite di quello che si crede. Un’auto elettrica richiede litio, rame e nichel, la cui estrazione è difficile e inquinante.

Come funziona il fracking. Foto: Wikimedia Commons.

Stesso discorso per i pannelli. Oggi Berlino si è affrettata a dotarsi di nuovi rigassificatori. Il che potrebbe voler dire che rispetto agli anni Settanta è andata bene. Oggi siamo più ricchi, argomenta Rampini: «la ricchezza è un cuscinetto protettivo formidabile, perché ci consente di incassare uno shock con sofferenze minori e risollevarci più rapidamente». Non ci sono fonti veramente pulite di generazione di energia, afferma inoltre l’autore. E tutta la creazione e generazione di energia, compresa quella elettrica, comporta un bilancio di vittime umane. Per la creazione di un pannello fotovoltaico occorrono dei minerali, tra cui il silicio, la cui estrazione provoca incidenti. La sicurezza del nucleare ha una presa potente sull’immaginario collettivo. Non è basata sui fatti. La condanna aprioristica che ha avuto questa fonte di energia ha rallentato il progresso tecnologico occidentale e non solo.

Joe Biden è consapevole del fatto che un’economia basata sulla green economy è schiava della Cina – che controlla minerali e metalli. Il presidente ha dunque rispolverato una legge di emergenza inaugurata ai tempi della guerra di Corea. Il Defense Production Act, che dà poteri speciali al presidente per mobilitare l’industria nazionale e salvaguardare la sicurezza nazionale. Avverte Rampini: «Non esiste al mondo un’energia “pulita” che non abbia bisogno di sfruttare le risorse minerarie del sottosuolo. Delegare questo compito ai cinesi non è una soluzione. Il deficit di realismo è un problema che affligge da anni le frange radicali del movimento ambientalista, assieme all’intolleranza verso ogni forma di dissenso». Infine, il futuro energetico in Occidente sembra meno apocalittico di quello che molti analisti prospettavano. Mentre l’Europa si crogiola nel suo lungo inverno, la Cina punta l’egemonia mondiale sulle tecnologie tramite il controllo dei siti minerari per le fonti rinnovabili.

Con i suoi grandi deserti, l’America potrebbe impiantare le nuove centrali solari. Ma il fenomeno che Rampini definisce Nimby – “Not in my back yard” – sta facendo strada anche negli Stati Uniti, dove un progressismo cieco quanto ideologico critica qualsiasi forma di produzione energetica. Sono molti i progetti bloccati dalle resistenze ambientalistiche. Occorrerebbe capire quali sono le alternative: il gas russo, subire l’egemonia cinese o trovare nuove strade che comunque comporteranno uno sfruttamento di qualche tipo. Eolico e solare non sono la panacea miracolosa per salvare il pianeta e neutralizzare il Cremlino. E poi, non molti ambientalisti vogliono le pale eoliche nei loro giardini. Un altro sintomo della decadenza occidentale: non sapere quello che si vuole davvero o quello che si vuole essere in futuro, in un mondo multipolare. Non solo la soglia del dolore: l’Occidente ha abbassato anche quella del realismo. Non una grande mossa, di fronte al lungo inverno.

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