Nel suo La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo (Laterza 2022) Tommaso Speccher compie un’analisi approfondita dal Dopoguerra ad oggi sul complicato rapporto tra Germania e Nazismo. Porta fatti e storie, cifre ed eventi partendo dall’anno zero, il 1945, poi Norimberga e la questione della colpa. Esplora i primi anni della Repubblica federale e l’assenza di significative purghe sotto Konrad Adenauer (1949-1963). Poi le vicende di Fritz Bauer e i processi agli Einsatzgruppen, fino al processo a Adolf Eichmann. Al microscopio anche gli anni di Willy Brandt e degli estremismi degli anni Settanta, fino a Helmut Kohl, il revisionismo e l’eredità della Memoria.
Dopo la guerra, in Germania si è avviato un processo pedagogico di rielaborazione del proprio passato. L’imperativo morale della denazificazione ha comportato riti collettivi sui crimini nazisti. Ma non è sempre stato così. L’elaborazione della Memoria a Ovest fu ben diversa da quella nell’Est. Tommaso Speccher sfata il mito dell’innocenza collettiva che ebbe un revival negli anni Novanta, con il coming-out persino di Günter Grass – iscritto alle Waffen-SS dal 1944 – e Martin Walser – iscritto al NSDAP. Il primo presidente federale, Theodor Heuss, disse che l’8 maggio 1945 «siamo stati redenti e annientati contemporaneamente». I processi di Norimberga dovevano punire i colpevoli e creare una consapevolezza verso i crimini contro l’umanità. Al netto delle diverse tradizioni giuridiche dei magistrati del processo, era chiaro che occorreva una rieducazione della società tedesca. «È quasi impossibile stabilire quale fosse la vera opinione della società civile attorno alle misure giudiziarie alleate», avverte Tommaso Speccher.
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La memoria collettiva si stabilì presto come concetto generico, ma ci vollero anni prima che divenisse un elemento cardine della civiltà tedesca odierna. Anche perché i processi produssero diverse ingiustizie. Solo le SS vennero ritenute colpevoli – assieme al partito e alla Gestapo, nonché ai servizi di sicurezza. Quanto alla Wehrmacht, ci furono molte assoluzioni. Tra il 1933 e il 1944 diciotto milioni di soldati erano entrati nell’esercito, il che aprì la strada ad ambiguità sulla Schuldfrage, termine coniato da Karl Jaspers (“la questione della colpa”). Il filosofo individuò quattro colpe fondamentali. Una giuridica (azioni che trasgrediscono la legge); politica (azioni degli uomini di Stato); una morale (azioni ascrivibili alla coscienza dei singoli); una metafisica (sulla soglia dell’esistenza dell’altro uomo). «C’è tra gli esseri umani come tali una solidarietà che rende ciascuno corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo», ha scritto Jaspers.
Alla fine della guerra, ricorda Tommaso Speccher, le categorie di vittime e carnefici non erano ancora chiaramente definite. Dopo il conflitto, Henry Morgenthau voleva cancellare il sistema industriale tedesco e trasformare la Germania in un territorio a economia agraria. Hannah Arendt parlò di Schreibtischtäter, ovvero di chi nella sua funzione burocratica assolveva agli ordini dei superiori. Alla base degli intenti di fare giustizia in Germania, ricorda l’autore, c’era il “programma delle 5D”. Demilitarizzazione, denazificazione, decartellizzazione, decentralizzazione e democratizzazione della Germania occidentale. Grazie al Piano Marshall Bonn si avviò verso il Wirtschaftswunder, che prevedeva la ricostruzione del Paese e la memoria sugli eventi prebellici, così come la competitività nell’ambito della guerra fredda.
Tommaso Speccher imputa ad Adenauer la colpa di aver favorito un senso di impunità, viste le amnistie concesse. Questo comportò l’integrazione di migliaia di criminali connessi ad abuso d’ufficio, approvazione indebita, omicidio colposo. Anche alcuni fanatici che presero parte alla notte dei cristalli scamparono il carcere. Una seconda ondata di amnistie avvenne nel 1951 quando migliaia di ufficiali della Gestapo furono reintegrati dopo il licenziamento nel 1945. Un’intera generazione di burocrati, scrive Speccher, «non scomparve dopo la fine della guerra, ma si seppe reinserire e rimodellare a partire dal nuovo contesto politico internazionale della Guerra fredda». Il caso scuola è quello di Hans Globke. La sua è una delle pagine politiche più scandalose della Repubblica. Uno dei più fidati collaboratori di Adenauer, aveva contribuito a scrivere le leggi antisemite. Nel 1961, i magistrati israeliani lo condannarono in contumacia all’ergastolo per favoreggiamento di crimini di guerra e contro l’umanità. La DDR, invece, «cercò sin dalla fase di occupazione sovietica di cancellare le tracce del passato nazista attraverso una propaganda ferrea, epurazioni radicali e soprattutto una riconversione forzata della narrazione politica collettiva».
La tematica delle riparazioni (Wiedergutmachung) fu implementato dalla Germania occidentale nell’ambito dei crimini commessi dallo Stato nazista. Nel 1947 avvennero i primi tentativi di risarcimento. La Germania socialista, invece, si rifiutò di risarcire le vittime dei nazisti scappate all’estero, laddove Adenauer riuscì a riempire lo spazio politico di destra, silenziando i rigurgiti nazisti e la ricostruzione del Partito Nazionalista Tedesco (Nationaldemokratische Partei Deutschland, NPD). «Gli anni Cinquanta furono il momento dell’espansione trionfante della ragione di stato adenaueriana, un misto di centralismo conservatore, anticomunismo radicale ed esclusione progressiva delle tendenze estremiste», ricorda Speccher. Ma le voci dei perseguitati, riunite sotto la Associazione delle Vittime del Nazionalsocialismo (Vereinigung der Verfolgten des Naziregimes, VVN) iniziarono a farsi sentire. L’autore riconosce i limiti della giustizia penale in rapporto alla dimensione dei crimini commessi.
Prendere tutti e favorire un risarcimento collettivo è impossibile. Spesso e volentieri si è voluto chiudere un occhio. L’obiettivo di Bauer, ad esempio, era quello di estendere il processo Auschwitz anche ai crimini legati all’Azione T4, fino alle corresponsabilità delle aziende come IG Farben, ThyssenKrupp, Siemens, Daimler. Risultati scarsi; anche per ragioni politiche. Gli anni Settanta inasprirono i conflitti politici. Ricorda Tommaso Speccher: «L’antiamericanismo anticapitalista del decennio rosso avrebbe quindi svolto un ruolo inibitore nel “fare i conti con il nazismo”: mentre gli studenti scandivano lo slogan di equivalenza “USA-SA-SS”, utilizzando Auschwitz come analogia della guerra in Vietnam, sfumava una vera presa di coscienza della realtà storica e specifica dei crimini nazisti».
Nel 1978 uscì la serie tv Holocaust” Fu la prima grande produzione sulla questione dello sterminio degli ebrei. Attrasse molte critiche, tra cui quelle di Elie Wiesel, che dichiarava impossibile replicare in tv la sofferenza dei deportati. Ma la sensibilizzazione del pubblico passa anche attraverso l’adattamento delle tematiche al piccolo schermo. Il regista Peter Märthesheimer spiegò che occasioni come quelle erano l’occasione per rielaborare i crimini in un meccanismo di condivisione e coinvolgimento. Poi ci sono stati successi come Schindler’s List (1993), La vita è bella (1997), Der Untergang (2004), che hanno aiutato a tenere viva la Memoria. «La cultura della Memoria in Germania è un processo in continua ridefinizione, a partire da interessi politici, questioni etiche, dinamiche diplomatiche».
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Speccher dedica le ultime pagine del libro alla Neue Wache, scoppiata all’inizio dell’era Kohl. Sul tema di come fare i conti con il nazismo, in un momento di revisionismo, si vedano i dibattiti tra Ernst Nolte e Jürgen Habermas, tra gli altri. Dopo il 1991, ricorda Tommaso Speccher, «la riflessione sul ritorno di una nuova Germania non era […] scontata, considerato che improvvisamente si ritrovavano assieme due paesi con narrazioni completamente opposte e non maturate definitivamente». Oggi la questione del nazismo e dell’Olocausto è ben presente nella memoria tedesca, ma questo non vuol dire che tutti hanno fatto i conti con la dittatura. Il memoriale berlinese di Peter Eisenman, con 2711 blocchi di cemento, inaugurato nel 2005, è un monito anche alla politica di ricordare i crimini nazisti. Il cancelliere Gerhard Schröeder disse che «il memoriale deve diventare un luogo dove si va volentieri». Oggi è ancora difficile fare i conti con il nazismo; anche in Germania. Durante l’era di Angela Merkel (2005-2021) la Memoria è diventata una ragione di Stato.
In conclusione, «ciò che viene soprattutto a mancare è una reale distinzione tra vittime e carnefici: la dimensione distruttiva delle persecuzioni e della guerra ha continuato a rivitalizzarsi nei passaggi generazionali senza però una rielaborazione effettiva se non nelle forme del rituale collettivo, dando vita così a una sorta di cristallizzazione della funzione memoriale». Importanti anche le riflessioni di Daniel Jonah Goldhagen (Hitler’s Willing Executioners): «Furono le convinzioni antisemite dei tedeschi la causa principale dell’Olocausto […]. Non la crisi economica, non i poteri coercitivi di uno stato totalitario, non la pressione sociale o psicologica, non immutabili tratti del carattere, bensì le idee sugli ebrei che da decenni pervadevano la Germania». Goldhagen si chiede: perché i tedeschi e perché gli ebrei. Domande che forse non avranno mai una risposta univoca e definitiva. Ma è un buon inizio per cercare, anche oggi, di fare i conti con il nazismo.