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Guardiani della Galassia Vol. 3: f**k you, Disney – theWise@theCinema

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Giacomo Stiffan

Dopo aver visto Guardiani della Galassia Vol. 3, una cosa appare subito evidente. Non solo è a mani basse il miglior film uscito dopo Endgame e uno dei migliori in assoluto dell’intero Mcu, tanto da guardare negli occhi senza complessi di inferiorità gli Avengers dei fratelli Russo.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è anche tutto questo, ma è soprattutto l’apice di una trilogia che rasenta la perfezione quale entità a sé stante e che, quasi per caso, si trova all’interno del Mcu. I Guardiani, pur amalgamandosi in maniera perfetta con il resto della produzione Marvel, sono infatti un franchise a parte, che potrebbe benissimo essere indipendente.

Sono la dimostrazione che non è il pubblico a essersi disinteressato della Marvel dopo Thanos, ma è la Marvel che è oggettivamente peggiorata, che non sa dove andare, che è così masochista – come vedremo tra poco – da aver cacciato l’unico cavallo di razza che aveva. Lo stesso che con questo film ha dimostrato che la Marvel, se vuole, può ancora essere all’altezza della sé stessa di dieci anni fa.

Il problema – per la Marvel – è che questo sub-franchise è legato a doppio filo al suo regista/sceneggiatore, James Gunn. Lo dimostra il fatto che tutte le volte nelle quali abbiamo visto i Guardiani al di fuori dei loro film il risultato è stato alquanto meh.

Questo lo sanno alla Disney, e lo sanno i fan.

I Guardiani hanno un solo padre

Gunn è riuscito dov’è l’intera Marvel ha fallito, ovvero mantenere un livello di solidità narrativa e registica almeno pari ai film della Saga dell’infinito.

Ma c’è un ma. Questo film è un massiccio dito medio di Gunn alla Disney che, dopo averlo silurato per alcuni pesanti tweet di molti anni prima, l’ha poi re-ingaggiato in seguito alle pressioni dei fan e di alcuni esponenti dello spettacolo (primo tra tutti Dave Bautista, l’interprete di Drax), nonché per l’oggettiva impossibilità di mandare avanti i Guardiani senza il loro unico e vero padre.

Tuttavia la frittata era fatta: Gunn ha firmato con il diretto concorrente della Marvel, la DC, della quale prenderà le redini. Non più un regista tra i tanti, quindi, bensì il capo creativo, una sorta di Kevin Feige in salsa DC.

Il fatto che in questo Guardiani della Galassia Vol. 3 Gunn tiri fuori le migliori scene di volo mai viste in una pellicola del Mcu non dovrebbe far dormire sonni tranquilli proprio a Feige, dato che il primo film che ha in cantiere Gunn per la DC è il reboot di Superman. A buon intenditor…

Sta di fatto che è un’uscita di scena, la sua, da maestro: non sbattendo la porta, ma facendo annusare alla Marvel tutta la sua bravura per poi portarla dalla concorrenza.

Per citare il presidente americano Joe Biden, «this is how capitalism works».

Analisi

SPOILER ALERT!

Il ruolo della musica

Cominciamo con un’osservazione che molti non condivideranno.

I film dei Guardiani della Galassia sono entrati nel cuore dei fan per una caratteristica in particolare: la lista delle musiche non originali sempre molto ben pensata, omogenea e incentrata su brani selezionati da un solo decennio per ogni pellicola. Così, dopo gli anni Settanta e Ottanta, in questo terzo volume approdiamo nei Novanta.

A tal proposito, una premessa. L’autore di questo articolo è un millennial, cresciuto a merendine industriali e musica anni Novanta, e per la prima volta ha potuto assistere ai Guardiani dicendo: «Ecco il mio decennio». Per questo motivo la percezione personale in merito alla scelta delle musiche è stata molto diversa dagli altri film, com’è immaginabile che sia diversa da quella del pubblico di altre generazioni.

In una recensione è normale che venga esposta una visione soggettiva di un’opera. Ma siamo onesti: tutti siamo legati in particolare alla musica ascoltata in adolescenza. Per questo motivo l’insieme dei brani scelti è stato un po’ sotto le aspettative.

Questo non significa che le musiche non vadano bene, anzi. L’apertura con Creep dei Radiohead, ad esempio, è stata un tuffo nel passato, alle cuffiette del lettore CD vinto con i punti della Coca Cola nelle orecchie, per isolarsi dal casino dell’autobus mentre si dava l’ultima ripassata prima della verifica, andando a scuola. O i Beastie Boys, il cui ricordo è impastato con i pomeriggi a guardare i Simpson o quella perla unica quale fu Futurama (e anche lì i collegamenti non mancano, ma ne parliamo dopo).

In generale, comunque, l’abbinamento tra le immagini e i testi delle canzoni è come sempre magistrale e la scelta di rimettere come musica finale Come and Get Your Love dei Redbone, ovvero la prima sentita nel primo Guardiani della Galassia, è la chiusura perfetta del loro ciclo.

Un Gen-X che gioca a fare il Millennial

Tuttavia, durante la visione veniva da chiedersi dove fosse quella sensazione da anni Novanta che ci si aspettava di trovare. Dov’è il grunge? E il nu metal, lo skate punk, il rap rock? Possibile che in quelle scene non si riuscisse a buttare dentro un sound cazzone come quello dei Green Day, o un brano selvaggio dei Rage Against The Machine? O qualcosa degli Smashing Pumpkins, dei Red Hot Chili Peppers, di Björk, di Alanis Morisette? Una trashata di qualche boyband, di Britney Spears o un pezzo eurodance?

Sarà il bias di chi quegli anni li ha vissuti, ma la scelta dei brani appare un po’ appannata, quasi si volessero cercare le canzoni con un sound che già al tempo suonava vecchio. Notate bene: le canzoni scelte sembrano quelle che avrebbe apprezzato negli anni Novanta uno cresciuto negli anni Settanta. Ed è proprio così.

Il motivo è evidente: Gunn, classe 1966, è nato agli albori della generazione X e non riesce a nasconderlo.

Nel franchise dei Guardiani della Galassia la sensazione è che ricerchi sempre delle sonorità anni Settanta. Questo era già percepibile nel secondo film, ma si notava poco per via della vicinanza dei due decenni. In questo terzo volume, però, la differenza generazionale esce fuori e scalfisce in negativo una colonna sonora altrimenti valida.

Peccato.

Una storia molto meta

Sta di fatto che per tutto il resto il film è una bomba, e questo successo Gunn lo confeziona in maniera alquanto furbetta.

Lo fa con il solito tono scanzonato tipico dei Guardiani che, ormai, sa un po’ di stantio. Questo però non tragga in inganno: la scrittura – in questo episodio molto, molto meta – si prende gioco di sé stessa in maniera palese (emblematico il personaggio di Drax, ad esempio), così come si prende gioco di alcune scelte fatte in merito ai Guardiani da altri registi, in primis il fato di Gamora in Infinity War. A dimostrazione di ciò, non è un caso che Gunn abbia gioito quando Taika Waititi ha separato il fato dei Guardiani da quello di Thor in Love and Thunder. La scelta di unirli, infatti, era stata presa in Endgame senza il suo parere preventivo.

Tuttavia, nonostante abbia momenti spassosi, il tono del film è diverso dagli altri due in maniera sostanziale. Molto più cupo, molto più crudo (per non dire gore) e non si fa scrupoli nell’usare quelli che potremmo definire dei mezzucci, pur di generare una possente reazione emotiva nel pubblico.

Se la prende con gli innocenti più pucciosi in assoluto per definizione, ovvero i cuccioli. Che in questo caso sono di più, sono degli animali-bambini: non solo sono pucciosi, ma parlano, pensano e si comportano come dei cuccioli umani.

Chi ha figli riconoscerà infatti dialoghi e comportamenti tipici dei cinque anni o giù di lì. Cosa che, abbinata alle immagini, può essere molto dolorosa da vedere, per alcuni.

Addio James Gunn

Per certi versi si tratta di un contrappasso dantesco: Gunn era finito nell’occhio del ciclone proprio per dei suoi vecchi tweet che ironizzavano in maniera fuori luogo in merito agli abusi sui minori. In questo film le stesse tematiche le sbatte in faccia al pubblico, sebbene le scene più crude siano off screen e vengano veicolate attraverso le espressioni di chi assiste alla scena.

Al netto del pregresso di Gunn, si tratta di una scelta che ha fatto storcere il naso a una fetta di pubblico sensibile a queste tematiche, tanto da rendere la visione sgradevole per alcuni (chi scrive ne ha avuto esperienza diretta in sala).

Un azzardo, quello di Gunn, basato sulla convinzione che da un lato il numero di queste persone sia esiguo e dall’altro che la catarsi finale riesca a redimere ai loro occhi questa scelta narrativa, o almeno riesca a farlo con una buona fetta.

A leggere le opinioni dei fan, la scommessa di Gunn è vinta a mani basse. Sono relativamente poche, infatti, le critiche che ha ricevuto sotto questo aspetto, sebbene non siano certo a zero.

Struttura

La narrazione si divide tra prologo e tre atti: il prologo, nel quale ha inizio la quest principale e finisce con Rocket in fin di vita; il primo atto, che consiste nel trafugare i file relativi a Rocket dall’Orgoscope, con fuga annessa; il secondo, nel quale i Guardiani devono recuperare la password del killswitch di Rocket recandosi nella Contro Terra, fuggendo dalla sua distruzione; infine il terzo, lo scontro finale a cavallo tra la nave dell’Alto Evoluzionario e Knowhere.

Tuttavia, la cosa più sorprendente a livello narrativo è la quantità di layer e tematiche trattate. Vediamole una per una.

Il tema della diversità

Mai come in quest’ultimo, agrodolce volume i Guardiani della Galassia sono la casa degli imperfetti, dei disadattati, degli spezzati. Di chi non si conforma, non si rassegna e la famiglia di cui ha disperato bisogno se la sceglie da solo.

In tal senso, la prima canzone che si sente e che introduce il tragico passato di Rocket è non a caso Creep, dei Radiohead (Vasco scansati, grazie…), la canzone che più di tutte le altre sentite nell’intera trilogia descrive al meglio i componenti dei Guardiani: dei freak, dei weirdo, dei fenomeni da baraccone con alle spalle i peggio traumi, composti in parti uguali da insicurezza e rabbia verso un mondo che amano, ma al contempo sentono come estraneo.

Degna di nota la scelta della versione acustica, molto più adatta di quella originale per introdurre in maniera più intimista il passato di Rocket, che in quest’ultimo capitolo scopriamo essere il vero protagonista della saga.

L’intera trilogia e la storia di Rocket sono infatti un manifesto della diversità.

Il tema dell’animalismo

James Gunn è noto per il suo humor nerissimo, del tutto privo di tabù (quantomeno, fino a prima dello scandalo dei tweet). Dietro a questo guscio di persona capace di ridere di tutto, però, si nasconde un animo sensibile, che traspare in molti suoi film. In questo, in particolare, il rispetto degli animali assume un ruolo centrale ed è senza ombra di dubbio uno dei layer principali.

Gunn prima violenta lo spettatore con immagini che sfiorano l’horror e che richiamano in maniera palese Toy Story e i giocattoli mostruosi – ma dal cuore d’oro, proprio come gli amici di Rocket – frutto degli esperimenti di Sid, il bimbo cattivo (tra i quali c’è anche una sorta di co-citazione di Howard il papero).

Toy Story, i giocattoli Frankenstein di Sid.

Poi però Gunn prende per mano lo spettatore per convincerlo che quegli animali in Cgi meritano giustizia nel film e, per esteso, anche nel mondo reale.

In tal senso il finale è catartico, con Rocket e i suoi compagni che salvano tutti, senza distinzioni tra bambini e animali, in una scena quasi biblica che richiama l’immaginario dell’arca di Noè. A tal proposito, sono molte le domande che salgono alla mente: Rocket sarebbe Rocket anche senza gli impianti? Cosa rende diverso l’uomo dall’animale? Solo la parola? La coscienza di sé? In questo ultimo caso, dove sta il confine tra animale e umano? La risposta, sembra voler trasmettere Gunn nel finale, è che non c’è alcuna differenza.

A ogni modo, quello di Gunn è un espediente narrativo che ha due scopi: il primo è creare una forte empatia nei confronti degli animali usati come cavie, mentre il secondo è suscitare una forte reazione di sdegno nei confronti del villain, il che ci porta al prossimo layer.

Il tema della scienza amorale

L’Alto Evoluzionario è l’archetipo dello scienziato pazzo. Non è un caso.

Gunn non aveva il tempo di costruire un personaggio carismatico come Thanos e ha quindi dovuto attingere all’immaginario collettivo per arrivare subito al cuore dello spettatore. Lo scopo, come abbiamo visto in precedenza, è quello di generare una forte repulsione verso il personaggio senza bisogno di fornire un background. Esso è malvagio non tanto (o meglio, non solo) per ciò che dice, ma soprattutto per le sue azioni, per ciò che è.

Inutile dire che l’espediente funziona a meraviglia: l’Alto Evoluzionario è un essere spregevole, un mostro senza scrupoli, un folle. Tuttavia, in cuor suo, è convinto di agire per il bene collettivo. Si pone infatti un nobile scopo: costruire la società perfetta, fatta di esseri perfetti, sani, belli, saggi, pacifici e felici.

A tal proposito un inciso è doveroso. James Gunn è un feroce detrattore di Donald Trump e tutta la sua narrazione va letta alla luce di questo. Soprattutto nel caso dell’Alto Evoluzionario: uno scienziato ateo, privo di etica, amorale, con una visione della scienza quasi dogmatica, fine a sé stessa, capace di creare e distruggere esperimenti, animali, bambini e intere civiltà senza battere ciglio.

A ben vedere l’Alto Evoluzionario è tutto quello che il seguace medio di QAnon vede in un liberal quando lo definisce woke. In realtà le posizioni liberal, quelle dell’accettazione del diverso e delle libertà individuali, sono rappresentate dai Guardiani. In pratica, Gunn fa in modo che lo spettatore di estrema destra finisca per identificarsi nei suoi più acerrimi nemici: geniale.

Tornando all’Alto Evoluzionario, a ben vedere ci troviamo di fronte a un personaggio infantile, che agisce come un bimbo sadico mentre arrostisce una formica con la lente d’ingrandimento per il puro gusto di vedere cosa succede. Così infantile da andare in crisi totale quando si rende conto di aver fatto il passo più lungo della gamba.

È infatti quando realizza che la sua creatura l’ha superato in intelligenza che tutto il suo castello di carte mentale crolla.

Il tema del rapporto tra creatore e creatura

È una dinamica attualissima, pensiamo alle intelligenze artificiali. Alimentato da decenni di film come Terminator o Matrix (ma anche da Avengers: Age of Ultron), il timore che questi programmi possano prendere coscienza di sé e superarci in intelligenza è all’ordine del giorno. In particolare, secondo Gunn, a fare la differenza è la creatività, ciò che l’Alto Evoluzionario è riuscito a realizzare solo in Rocket.

Si può notare infatti che il suo esperimento più evoluto – la Contro Terra – è congelata tra gli anni Settanta e Ottanta. Il vestiario, l’architettura, gli arredi, le auto, tutto rimanda a quell’epoca, segno che gli abitanti non sono stati in grado di evolvere, ed è il motivo per il quale l’Alto Evoluzionario decide di incenerirli.

Eppure, quando si rende conto che Rocket è più intelligente di lui la reazione istintiva è di eliminarlo. Che è poi la reazione più plausibile che avremmo tutti noi di fronte a una AI con le stesse caratteristiche.

C’è però una differenza sostanziale: il nostro istinto tende a considerare in maniera negativa una macchina che prende coscienza, mentre non siamo altrettanto terrorizzati nei confronti di un essere organico che fa la stessa cosa.

Gunn, infatti, si guarda bene dall’introdurre una controparte malvagia di Rocket (cosa che sarebbe alquanto plausibile). Pensiamo a Magneto per gli X-Men, ad esempio: un mutante che, un po’ come Rocket, è sopravvissuto ai lager nazisti, ma sceglie di usare i propri poteri per perseguire obiettivi malvagi. Un esempio scelto non per caso.

Il tema della sopravvivenza al trauma

Il parallelismo tra le gabbie degli animali e i lager nazisti, infatti, è piuttosto evidente. Com’è evidente il parallelismo tra gli esperimenti dell’Alto Evoluzionario e quelli del dottor Mengele.

Guardando attraverso questa lente le scene degli animaletti che giocano nelle gabbie, essi appaiono come dei bambini veri, talmente innocenti da trovare il modo di evadere con la mente da quella prigione, grazie alla loro fantasia.

Alcuni li hanno definiti scemi, altri idioti, altri ancora patetici. In realtà si tratta di comportamenti plausibili, dei meccanismi di protezione che per quanto infantili hanno lo scopo di instaurare una parvenza di normalità. Dopotutto, si tratta di esseri per i quali quella gabbia è tutto ciò che hanno mai visto nella loro breve vita: sono puri e innocenti.

Da questo punto di vista il fatto che vengano tatuati e chiamati con un numero è un riferimento esplicito ai lager, che si contrappone alla loro scelta di andare contro questo stato di cose dandosi un nome. Si tratta anche qui di un modo per affermare la propria esistenza e la propria individualità, in maniera simile, ad esempio, ai cloni in Star Wars: The Clone Wars.

Leggi anche: The Mandalorian, analisi e recensione della terza stagione – WiSerial.

https://www.thewisemagazine.it/2023/04/22/the-mandalorian-analisi-e-recensione-della-terza-stagione-wiserial/

Una volta fuggito, Rocket – come altri che si sono trovati nei suoi panni – almeno all’inizio vive il trauma in maniera autodistruttiva. Come molti scampati ai campi di concentramento, soffre della sindrome del sopravvissuto e finisce per provare un forte senso di colpa per non essere stato in grado di salvare quella che per lui era la sua famiglia, quasi che la causa della loro morte sia stata lui stesso, invece dei carcerieri.

Il tema della famiglia

Famiglia che rappresenta un altro layer piuttosto evidente. Non da intendersi come quella biologica, bensì quella che scegliamo di costruirci e che si basa non su legami di parentela o di obbedienza, ma di amore.

Questo aspetto assume una particolare evidenza da due punti di vista. Il primo è rappresentato da Gamora che, essendo di fatto nuova nei Guardiani, fornisce un punto di vista esterno e iper-razionale delle dinamiche interne dei Guardiani stessi, disposti a morire l’uno per l’altro senza porsi il minimo dubbio. Il secondo è invece rappresentato dall’Alto Evoluzionario, che fornisce un termine di paragone allo spettatore: da una parte i Guardiani, che agiscono come una cosa sola; dall’altra lui, che fa e disfa civiltà intere come un dio ma poi, alla fine, subisce l’ammutinamento dei suoi scagnozzi.

Poi, come in una Famiglia TradizionaleTM, arriva il momento nel quale il ciclo si conclude e i pulcini lasciano il nido. I suoi componenti sono cresciuti, hanno avuto il loro percorso, la loro evoluzione, così prendono la propria strada per realizzarsi non tanto in quanto membri di un gruppo ma in quanto individui.

Tuttavia, come un figlio che va a vivere via dai genitori non smette di essere parte della famiglia, allo stesso modo la famiglia dei Guardiani non ha una fine. Più semplicemente, ognuno di loro a suo modo ha trovato il modo di emanciparsi da quel legame di codipendenza che, se protratto troppo nel tempo, rischia da una parte di divenire tossico e dall’altra di annoiare il pubblico.

I Guardiani però no, non annoiano e continuano sotto la guida del vero protagonista, Rocket, e dei nuovi componenti, tra cui figura un essere che potremmo definire “divino”.

Il tema della divinità

Il divino è un tema ricorrente – e spesso deriso – nel franchise dei Guardiani.

Il “giocare a fare il dio” è una costante, di solito interpretata dal villain di turno (Ronan, Ego, l’Alto Evoluzionario). Qui l’Alto Evoluzionario rappresenta l’uomo che, conscio che Dio non esiste, ne vuole prendere il posto. Lo dice lui stesso in maniera molto chiara (per non dire didascalica) quando i suoi scagnozzi dubitano delle sue scelte.

Tuttavia ci troviamo pur sempre nell’Mcu, ovvero un posto dove gli dei esistono, camminano tra la gente e si possono toccare con mano.

Così in questo terzo film il divino reale è incarnato in Adam Warlock, un essere dalla potenza enorme ma con la mente di un ragazzino che non ha alcuna esperienza della vita. La scena nella quale salva un morente Starlord nello spazio è una palesissima citazione al contrario della Nascita di Adamo di Michelangelo, nella quale Starlord è Adamo e Adam è Dio.

La Nascita di Adamo di Michelangelo.

Di fatto è la negazione dell’opera stessa in quanto Adamo si sostituisce a Dio, obliterandolo dall’equazione.

Da notare che Peter, quando la faccia gli si congela e si gonfia, diventa fin troppo simile a quella di suo padre Ego, in una maniera che risulta piuttosto inquietante.

Una scrittura semplice ma mai banale

Torniamo alla trama che – al netto del fatto che bisogna essere aggiornati almeno allo speciale di natale uscito a dicembre su Disney+, altrimenti ci si perde qualche pezzo per strada – di per sé è molto facile: dobbiamo salvare uno dei nostri, incappiamo nel cattivo, lo sconfiggiamo.

Tuttavia questo non è un difetto, per come lo gestisce Gunn, anzi. La semplicità della storia gli permette di prendersi il tempo necessario per lavorare sui personaggi. Questa è la cifra stilistica di Gunn, quel tratto distintivo che lo rende uno degli autori più amati dai fan: non narra una storia che accade ai personaggi, bensì la storia è i personaggi.

Questo era valido nei precedenti film, ma in questo raggiunge l’apice. Mai come ora i personaggi vengono fatti evolvere. Tutti, nessuno escluso.

Un finale dolce

La cosa particolare di questo ultimo film dei Guardiani è che nessun personaggio ha una plot armor. Sappiamo che Gunn andrà alla concorrenza ed entriamo in sala consci che non abbiamo nessuna notizia di futuri progetti nel Mcu per i membri del cast.

Questo significa che ognuno di loro può essere sacrificato, o addirittura tutti: nulla può essere dato per scontato e questo tiene lo spettatore costantemente in tensione. Un effetto formidabile, che rende la storia molto più avvincente del sapere già che ci sarà un seguito e rende il finale dolce proprio perché, pur sapendo questo, Gunn sceglie comunque di non infierire.

Questo, infatti, è il film dove ogni personaggio impara a camminare con le proprie gambe e trova un degno collocamento.

Starlord accetta che la “sua” Gamora è morta per sempre e quella che si trova davanti è un’altra persona (scelta apprezzabile, piuttosto di uno scontatissimo bacio). Così sceglie di tornare sulla Terra in cerca del nonno, l’ultimo suo famigliare – biologico – in vita. Non a caso, è l’unico che abbiamo la certezza di rivedere.

Gamora comprende il valore della famiglia e torna con i Ravagers. Difficile che la rivedremo di nuovo.

Nebula, ormai divenuta la mamma dei Guardiani (da notare che la prima persona di cui chiede Rocket è proprio lei), ha avuto uno dei più bei archi narrativi e arriva ad accettare la sua vocazione al bene.

Drax smette di essere il Distruttore (nonché lo scemo del gruppo) e torna a fare il padre portando a casa alcune delle scene più toccanti.

Rocket ha la sua redenzione, vendica i suoi amici ma non si limita a questo e dopo aver salvato tutti i prigionieri dell’Alto Evoluzionario accetta di essere ciò che è: un procione.

I am Groot

Groot è il personaggio che, nel finale, chiude davvero il ciclo nei confronti degli spettatori. Per tutto il film la nuova Gamora non riesce a comprendere cosa dice e lo fa capire con varie esternazioni, arrivando a chiedere quello che un po’ tutti si sono sempre chiesti, almeno agli inizi: non è che gli altri si inventano quello che dice Groot?

Sul finale, invece, Gamora riesce a comprenderlo, e se ne stupisce. Tuttavia è ancor più d’impatto poco dopo, quando siamo noi a capire ciò che dice Groot, e il meccanismo è evidente: nessuno dei presenti si stupisce che Groot parli in maniera comprensibile perché siamo noi spettatori che, alla fine, riusciamo a capirlo.

Questo è il regalo di James Gunn: anche noi, ora, facciamo parte dei Guardiani.

Pagelle

Regia

Nessun difetto rilevato, ci troviamo davanti al miglior cinecomic visto finora dal punto di vista della regia.

Alcune scene rimarranno nella storia del cinema, come la lunghissima pianosequenza action – finta, gli stacchi ci sono ma sono mascherati in maniera perfetta – che si svolge nel corridoio.

Si tratta di azione girata in modo perfetto: Gunn muove la telecamera in modo frenetico, riuscendo a cogliere il movimento d’insieme per poi concentrarsi su un singolo dettaglio, per poi focalizzarsi su un singolo personaggio (e tutti vengono valorizzati in egual misura), per poi girare la camera seguendone lo sguardo e ripartire da capo. Zoom in, zoom out, rotazioni, pan, in un ciclo continuo di interazioni che sembra non finire mai e lascia lo spettatore a bocca aperta e con la pelle d’oca.

È un virtuosismo, ma non è fine a sé stesso. La comprensibilità dell’azione è sempre massima, si sa in ogni momento cosa sta succedendo. Le coreografie sono perfette, tutto è di facile fruizione per lo spettatore. Maestria pura.

Anche le scene di volo legate ad Adam Warlock sono spettacolari e fanno molto ben sperare per Superman Legacy, il prossimo film scritto e diretto da Gunn per la DC.

Al di là dell’azione – perfetta – anche le scene più intime e incentrate sulle emozioni dei personaggi non avrebbero potuto essere girate meglio. Il momento nel quale i Guardiani guardano il video degli esperimenti su Rocket è una stilettata al cuore: noi non lo vediamo, ma vediamo le loro reazioni e in un attimo capiamo tutto. Un modo dolce, per certi versi delicato, per arrivare allo spettatore non a livello razionale ma emozionale.

Voto: 10

Fotografia

La firma visiva di Gunn (poi copiata da molti altri) è l’uso pressoché totale della palette cromatica. Tutti i colori vengono esaltati, spesso tutti insieme.

In generale la luce è sempre ben gestita, anche negli esterni. Le scure e sporche gabbie degli amici di Rocket si alternano ai luminosissimi interni della sala principale dell’Alto Evoluzionario e dell’Orgoscope.

I primi piani vengono enfatizzati da tagli corretti, che li rendono espressivi.

Non ci troviamo di fronte a guizzi di genio autoriale, ma si tratta comunque di una fotografia ben al di sopra della media dei cinecomic attuali.

Voto: 8,5

Sceneggiatura

Come già sviscerato nell’analisi, la struttura è semplice e fruibile con facilità.

Gunn però si concentra sui contenuti, inserendo una miriade di tematiche stratificate una sull’altra. È un film che si può vedere tre volte di fila, e ogni volta si scoprirà una chiave di lettura nuova.

I flashback sono gestiti con criterio e si alternano alle scene d’azione cadenzando un ritmo ben studiato di fisicità e intimità, di commedia e drama, di acceleratore e freno.

È un ottovolante di emozioni, nel quale un momento si ride e il momento dopo si piange, e a volte le due cose si sovrappongono. A tal proposito, una frecciatina a chi se la merita: Taika, prendi esempio.

Ad ogni modo, si esce emotivamente provati da questi alti e bassi ma felici dell’esperienza.

Tantissime anche le citazioni. Alcune sono disseminate nell’analisi qui sopra, ma degne di nota sono la nave dell’Alto Evoluzionario che sembra un cubo Borg in versione rossa (e anche l’interno appare altrettanto desolante, tranne che per la sala dell’Alto Evoluzionario); e le sentinelle sguinzagliate dal villain durante l’ultimo scontro, che sembrano una mezza via tra i già citati Borg di Star Trek e le seppie di Matrix.

Da evidenziare che questo è il primo film Mcu con le parolacce: era ora.

Voto: 9

Colonna sonora

Guardiani della Galassia è un marchio particolare da giudicare lato soundtrack, data la grande importanza ricoperta dalle canzoni non originali. Distinguiamo quindi le due parti.

Le composizioni originali sono valide, ben eseguite, in perfetto stile cinecomic. Si tratta di sonorità che per certi versi richiamano i temi di Silvestri per i film degli Avengers, quindi si utilizza tutta l’orchestra sinfonica in maniera potente. Niente di ardito o innovativo, si tratta di una solida e tradizionale colonna sonora efficace, senza particolari difetti.

Per quanto riguarda le musiche non originali, il discorso è più complesso ed è già stato analizzato in precedenza. I pezzi scelti sono di per sé azzeccatissimi per le scene cui sono abbinati (soprattutto per quanto riguarda i testi), ma in una buona metà della selezione manca quel feeling anni Novanta che ci si aspetterebbe.

Voto: 8

Effetti speciali

È la miglior Cgi vista finora all’interno del Mcu e una delle migliori in assoluto nell’ultimo periodo, ad esclusione di Avatar: The Way Of Water che sta un altro livello.

Leggi anche: Avatar: The Way Of Water, capolavoro o copia-incolla? – theWise@theCinema.

https://www.thewisemagazine.it/2022/12/24/avatar-the-way-of-water-capolavoro-o-copia-incolla-thewisethecinema/

La cosa è evidente soprattutto nelle ambientazioni, che sono quasi tutte con una percentuale molto alta di green screen. Gunn riesce a dissimulare la sensazione di vedere i personaggi live action aggirarsi in un disegno finto, cosa tipica di questa soluzione. Pensiamo ad Antman: Quantumania. La differenza è abissale: a differenza di Peyton Reed, Gunn riesce a far interagire i personaggi in maniera realistica con gli ambienti.

Che sono tutti molto belli, ma l’Orgoscope merita una menzione a parte. Già l’idea di un luogo organico è geniale, ma la resa è magnifica. L’ambientazione a mezza via tra Esploriamo il corpo umano e il video di Can’t Get You Out of My Head di Kylie Minogue è di una bellezza incredibile (e anche qui i richiami agli arredi di design anni Settanta non mancano). Così come le tante chicche, come gli occhi senza palpebre al posto delle telecamere.

Kylie Minogue.

Magnifiche anche le creature. La resa del pelo e degli occhi di Rocket è qualcosa di sbalorditivo. Anche il “gatto” di Adam Warlock ha un ottimo design, che ricorda i Loth Cat visti in Star Wars: Rebels, mentre il verso e le movenze sembrano prese pari pari da Mordicchio di Futurama.

Tre Loth Cat.

Voto: 10

Costumi e trucco

I costumi sono geniali. Le guardie della Orgocorp ne sono l’emblema, con quella divisa organica a metà strada tra l’omino Michelin e un tardigrado.

Un tardigrado.

Per non parlare delle tute spaziali dei Guardiani, ognuna di colore diverso come quelle dei Power Rangers. In generale tutto il vestiario è molto curato, dalla divisa di Stakar (Sylvester Stallone) alla tuta di Cosmo, sebbene non si raggiunga il livello di classe ed eleganza presente in Black Panther: Wakanda Forever, per restare in casa Marvel.

Essere nei panni di un truccatore in un film come i Guardiani della Galassia Vol. 3 non dev’essere affatto facile. Tuttavia il risultato è strepitoso: da Gamora a Nebula, da Drax a Mantis, i Guardiani sono sempre perfetti e curatissimi. Un plauso per la “maschera” dell’Alto Evoluzionario, dov’è impossibile cogliere la giunzione tra il trucco prostetico e la pelle vera.

Voto: 9,5

Cast

Premessa: avendo assistito alla proiezione in italiano risulta impossibile dare un giudizio sulle prestazioni di Bradley Cooper e Vin Diesel, rispettivamente doppiatori originali di Rocket e Groot.

Chris Pratt

È sempre lui, questo giro però dimostra di saper andare oltre la cazzonaggine del proprio personaggio. La sua espressione alla vista delle torture su Rocket, ad esempio, è un ingrediente cruciale dell’intera scena, che porta a casa alla grande. Si dimostra un attore sempre più versatile (a tal proposito, da non perdere The Terminal List su Prime Video, per godersi un Chris Pratt in una veste diversa).

Voto: 8,5

Zoe Saldana

Fa un salto di qualità. È probabile che con un personaggio meno soft rispetto alla precedente Gamora si senta più a suo agio. Come in Avatar: The Way Of Water, dà il meglio di se quando si incazza.

Voto: 8,5

Karen Gillan

Lei fa un deciso salto di qualità. Il suo è il personaggio più difficile di tutti da rendere espressivo a causa dei vari strati di trucco prostetico e degli incroci dei disegni sul viso, che ne dissimulano i lineamenti. Si dimostra bravissima sia da dura che nelle scene più toccanti.

È un gran peccato che il doppiaggio la penalizzi molto: in generale la sua interpretazione, per sua stessa ammissione pensata da Gunn per essere a mezza via tra Marylin Monroe e Clint Eastwood, è degna di nota anche nella voce.

Voto: 9

Dave Bautista

È sempre la macchietta del gruppo e questo riesce bene a Bautista che, però, tende a dare prestazioni migliori nelle interpretazioni drammatiche. Difficile che lo rivedremo ancora dopo la sua durissima presa di posizione nei confronti della Disney durante la cacciata di Gunn. È probabile che lo rivedremo prima in casa DC.

Voto: 8

Pom Klementieff

L’attrice francese riesce a fare una delle migliori svampite del grande schermo nell’ultimo periodo. La sua Mantis è sopra le righe, fuori luogo, talmente impacciata da fare il giro e risultare simpatica. Il merito è soprattutto dell’interprete.

Voto: 8

Sean Gunn

Non appare poi molto, ma la sua interpretazione rende Kraglin un personaggio a cui non si può non voler bene. Sprizza insicurezza da ogni poro ma nonostante la paura cerca sempre di superare i suoi limiti. Gunn (Sean, il fratello) riesce a rendere tutto questo percepibile e plausibile.

Voto: 8

Chukwudi Iwuji

Mannaggia quanto gli viene bene il villain! È capace di rendersi odioso a colpo d’occhio (merito anche di un trucco molto azzeccato). Teatrale nei movimenti, gelido nelle pause. Ne vogliamo ancora.

Voto: 8,5

Will Poulter

La parte del ragazzino nel corpo di un adulto con i superpoteri non è molto complessa, ma comunque la porta a casa più che bene. Punto di domanda sul futuro, stiamo a vedere.

Voto: 8

Voto globale al cast ponderato in base al minutaggio: 8,5

Pro

  • La miglior regia mai vista in un cinecomic
  • Storia ricca, piena di tematiche affastellate una sull’altra
  • Effetti speciali e trucco al top

Contro

  • Musiche sottotono rispetto agli altri due film precedenti
  • Non adatto a un pubblico sensibile
  • È l’ultimo film di Gunn nel Mcu, argh!

Voto globale: 9+

Published by
Giacomo Stiffan

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