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Curiosità

Luca Barisonzi, ragazzo come tanti, alpino e atleta come pochi

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Marco Capriglio

«Il rumore di un elicottero mi scuote. Per qualche secondo resto in bilico in quello spazio indefinito tra il sonno e il risveglio. La mente confusa annaspa, i ricordi si affollano e mi tolgono il respiro. Finalmente riesco ad aprire gli occhi. Non sono più in Afghanistan. Sono a Milano, in un letto di ospedale, e l’elicottero che è atterrato è quello del pronto soccorso», scrive il Primo Maresciallo in Ruolo d’Onore degli Alpini Luca Barisonzi nel suo libro La patria chiamò, edito da Mursia nel 2012.

Ferito in Afghanistan in un attentato in cui rimase ucciso il suo commilitone Luca Sanna, oggi il maresciallo Luca Barisonzi, insignito della Medaglia d’Argento al Merito dell’Esercito, continua la sua missione. Lo si può infatti incontrare in eventi pubblici e nelle scuole, intento a divulgare ai giovani (e non) il valore della divisa, della resilienza e dello sport.

Oggi theWise Magazine ha incontrato per voi Luca Barisonzi.

Cosa accadde in Afghanistan quel 18 gennaio 2011?

«Il 18 gennaio 2011 ci trovavamo a Bala Murghab, un villaggio dell’Afghanistan a circa 170 chilometri da Herat. Mi trovavo con la mia squadra su una delle colline che caratterizzano la morfologia di quell’area, con il compito di evitare che gli insorti, che erano stati allontanati dalla valle, facessero ritorno per riprendere le azioni ostili. In pratica svolgevamo attività di capillare sorveglianza di tutta l’area esterna alla valle, e lo facevamo insieme ai soldati dell’esercito afghano.

Quel giorno, mentre svolgevo il mio servizio, mi si è avvicinato uno di questi soldati afghani. Ovviamente, vedendolo in uniforme, non ho sospettato nulla. In realtà si è poi scoperto che era un infiltrato, perché dopo essersi avvicinato ha aperto il fuoco verso di me e i miei compagni, colpendo me per due volte, rendendomi tetraplegico, e successivamente colpendo Luca Sanna, uccidendolo sul colpo.

Quando mi sono risvegliato mi trovavo nell’ospedale militare di Ramstein, in Germania, circondato dai medici che mi riferivano quelle che erano le mie condizioni, cioè che molto probabilmente il mio futuro sarebbe stato quello di rimanere sdraiato su un letto attaccato a un respiratore, con la sola possibilità di muovere le spalle. È stato esattamente quello il momento in cui ho preso coscienza di quanto grave fosse la mia condizione».

Forse agli occhi di un ragazzo di vent’anni poteva sembrare tutto finito. Lei come ha affrontato questa problematica?

«Quando ho scelto di indossare l’uniforme, ho accettato pienamente che nella vita militare avrei corso dei rischi. Quello che mi è accaduto mi ha messo di fronte a una sfida: arrendermi a quello che mi era stato detto dai medici, oppure lottare per cercare di recuperare il più possibile.

Io ho scelto la seconda strada, e avere un obiettivo dopo l’altro è stata la mia forza per superare quei momenti, spinto soprattutto dalla consapevolezza che, seppure cambiato nel fisico, io ero riuscito a tornare a casa mentre un collega, un fratello, non ce l’aveva fatta.

In un certo senso, sento di doverglielo, di dovermi impegnare quotidianamente per vivere la mia vita al meglio anche per lui».

Il Primo Maresciallo in Ruolo d’Onore degli Alpini Luca Barisonzi.
Le foto utilizzate sono per gentile concessione dell’intervistato, dal suo profilo Instagram.

Cosa l’ha spinta a continuare ad indossare il cappello degli Alpini, nonostante tutto?

«L’attaccamento alla specialità non è mai cambiato, non si tratta solamente di una questione di passione e senso di appartenenza ma anche di riconoscenza nei confronti di una parte della mia storia, quella militare, che mi ha dato tanto sia dal punto di vista professionale che umano; e questo non posso e non voglio mai dimenticarlo, motivo per cui ancora oggi continuo a indossare con orgoglio il mio cappello con la penna».

Nei suoi profili social la si vede spesso parlare nelle scuole. Una missione che continua, con una sfida difficilissima, insomma. Come procede?

«Credo che parlare ai giovani rivesta un’importanza davvero fondamentale per chi come me può raccontare un’esperienza così intensa e piena di valori e di significato.

In un momento storico come quello attuale abbiamo davvero bisogno di trasmettere messaggi positivi e strettamente legati a quelli che da sempre rappresentano alcuni dei valori più importanti che caratterizzano noi militari: la fedeltà, la disciplina, il senso del dovere, il rispetto delle regole e il senso civico solo per citarne alcuni.

I giovani rappresentano il nostro futuro e devo dire che ogni volta è una grande emozione ritrovarmi in mezzo a loro, rispondere alle loro domande e avere la consapevolezza di avere lasciato in loro un racconto di vita vissuta capace di trasmettere fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità».

Oggi fa parte del Gruppo Sportivo Paralimpico Difesa. Di cosa si tratta? Qual è la sua specialità?

«Mi sono avvicinato al mondo dello sport paralimpico tra il 2017 e il 2018 grazie al Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa. In precedenza ho passato molto tempo a chiedermi cosa avrei potuto fare con la mia disabilità, perché prima dell’accaduto ero una persona molto attiva.

Stando su una carrozzina non riuscivo a vedermi praticare alcun tipo di attività sportiva, perché la mia era una disabilità grave e quindi discipline come il basket in carrozzina, il tiro con l’arco e tante altre non erano per me fisicamente sostenibili.

Inizialmente anche per il tiro a segno è stato così, dato che le prime volte non riuscivo a sostenere allenamenti che durassero più di venti minuti, in quanto la posizione di tiro è talmente diversa rispetto alla mia posizione normale che fisicamente non riuscivo ad allenarmi per un tempo maggiore.

Dopo i primi venti minuti mi sentivo distrutto. Adesso, invece, faccio allenamenti che durano anche quattro o cinque ore, ma è stato un processo lento e graduale durato circa due anni, perché come ho detto nel 2017 circa ho scoperto il tiro a segno, ma in realtà è soltanto da un paio di anni che lo pratico continuativamente».

Luca Barisonzi sulla linea di tiro.

Non solo tiro a segno, ma ha anche toccato la vetta del Monte Rosa. Può raccontarci qualcosa?

«Quando mi trovavo ancora in unità spinale, venne a trovarmi un amico alpinista che mi propose di provare a salire sul rifugio più alto d’Europa insieme. Io accettai immediatamente, ponendo l’unica condizione di non essere portato su di peso ma che avrei voluto trovare una carrozzina da manovrare personalmente, in grado di aiutarmi a salire da solo.

Piano piano, siamo riusciti a trovare quello che cercavo e grazie al supporto di tantissime persone l’impresa si è concretizzata, permettendomi dopo una lunga scalata iniziata dove parte il ghiacciaio del Monte Rosa di raggiungere capanna Margherita, a 4556 metri sul livello del mare.

Un’emozione incredibile che mi ha permesso di sentirmi ancora una volta fino in fondo un alpino, dimostrando che non esiste l’impossibile».

Secondo le, il mondo dello sport è inclusivo? In che modo lo sport può aiutare ed essere mezzo e fine di rinascita?

«Come accennavo in precedenza, sono gradualmente arrivato ad allenarmi anche per quattro o cinque ore, ma per arrivare a tale traguardo ho dovuto inizialmente lavorare sodo su quelle che erano le mie lacune, sulla resistenza fisica in determinate posizioni, e quindi è stato un processo molto lento.

Con questo voglio dire che, sulla base della mia personale esperienza, lo sport può senza ombra di dubbio rappresentare un efficace mezzo di rinascita, come anche di sfida verso sé stessi. Una sfida che si vince solo grazie alla determinazione e alla convinzione che il mondo dello sport è e deve sempre essere inclusivo.

La disciplina che pratico richiede moltissimo a livello mentale e ti mette in continua sfida con te stesso. È vero che competi con altri avversari quando sei in pedana, ma la vera competizione è quella contro te stesso, nel cercare di gestire le tue emozioni tentando di raggiungere la perfezione ogni volta. È qualcosa che mi affascina molto e mi piace tantissimo».

Lasci un messaggio a chiunque si senta debole o in qualche modo sconfitto.

«Nella vita, chi più e chi meno, abbiamo tutti incontrato delle difficoltà. Difficoltà che a volte sono tanto grandi da stravolgere completamente i nostri piani, da cambiare quelli che erano i nostri sogni fino al giorno prima, presentandoci all’improvviso davanti ad una pagina bianca tutta da riscrivere. 

Il messaggio che vorrei lasciare è quello di non arrendersi di fronte alle difficoltà, ma di vedere ogni sfida come una opportunità di crescita, una opportunità per porsi nuovi obiettivi e continuare a vivere».

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Marco Capriglio

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