L’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger ha dedicato il suo Leadership. Sei lezioni di strategia (Mondadori, 2022) a sei politici del secolo scorso: Konrad Adenauer, Charles De Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan Yew e Margaret Thatcher. «Il ruolo dei leader consiste nel guidare quei giudizi e nell’ispirare i loro popoli a tradurli in pratica», esordisce Kissinger. Che ha avuto la fortuna di conoscerli all’apice della loro influenza mentre ridisegnavano l’andamento dei rispettivi Paesi. Leader è chi apre nuovi orizzonti e si fa interprete del cambiamento; ridefinisce gli obiettivi e imposta una nuova architettura dello Stato. La maggior parte dei leader, spiega Kissinger, non ha solo grandi visioni, ma anche un buon atteggiamento manageriale. Il grande leader è in grado di preservare la società e comprendere la portata rivoluzionaria della sua azione politica. Leader è chi si assume le proprie responsabilità.
«I sei contribuirono a dar forma al periodo che seguì, nel quale le economie andarono riorganizzate, le strutture interne ridefinite, le relazioni internazionali ripensate, affrontando inoltre le sfide della guerra fredda e gli stravolgimenti provocati dalla decolonizzazione e dalla globalizzazione, le cui ripercussioni sono ancora attuali».
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I leader avevano aspetti comuni:
«Le umili origini permisero loro di scardinare le categorie politiche convenzionali di insider e outsider. Sadat e De Gaulle erano entrambi ufficiali delle forze armate arrivati al potere in seguito a una crisi nei rispettivi Paesi; Nixon e Adenauer erano politici esperti e conosciuti […]. Thatcher e Lee raggiunsero le loro cariche nella maniera più classica».
I leader erano animati da valori borghesi, ovvero «disciplina e il perfezionamento personale, la carità, il patriottismo e la fiducia in sé». Leader con forte autocontrollo e capacità di orientarsi verso il futuro.
«Con l’eccezione di Lee, un altro fattore comune a questi leader fu un’educazione sentitamente religiosa, cattolica per Adenauer e De Gaulle, quacchera per Nixon, musulmana sunnita per Sadat e metodista per Thatcher».
A ogni leader Kissinger dedica un’ottantina di pagine. Il leader deve prendere decisioni e conquistarsi la fiducia popolare, proporre una rotta e mantenere le promesse. Senza una guida responsabile. le istituzioni vanno alla deriva e le nazioni rischiano di diventare sempre più irrilevanti, sostiene l’autore. «Gli statisti pensano e agiscono all’intersezione di due coordinate: l’asse tra passato e futuro, e l’asse tra i valori profondi e le aspirazioni dei popoli che essi governano». Un buon leader, continua Kissinger, è in grado di suscitare il desiderio di seguire il suo cammino. Non serve imporlo. «Il profeta si riconosce dalla visione; lo statista dalla capacità analitica e dal talento diplomatico». Un leader resiste agli umori del momento.
Konrad Adenauer è stato il primo borgomastro di Colonia dal 1917 al 1933. Ha portato la Germania dal punto più basso della sua storia all’alleanza atlantica. E gestì un Paese che si era macchiato del genocidio degli ebrei. Tra le conseguenze della sconfitta del 1945, anche la privazione di territorio, la divisione del Paese e il crollo economico e morale. Egli, scrive Kissinger, «scelse una linea d’azione a un tempo umile e audace: confessare le iniquità tedesche, accettare i castighi della sconfitta e dell’impotenza, compresa la cessione di una parte di territorio, acconsentire allo smantellamento delle basi industriali del Paese». Ancorò la nuova Germania occidentale alla tradizione europea che stava nascendo. La legò al concetto di democrazia interna e al cattolicesimo. Ripudiò il ritorno al nazionalismo e si ancorò all’europeismo.
Ma sottolineò anche che l’umiltà era la strada verso l’uguaglianza. Stalin gli chiese di rinunciare a tutti i progressi compiuti nel Dopoguerra verso l’integrazione europea in cambio dell’unificazione. Tuttavia, il politico tedesco seppe dire di no perché questo avrebbe voluto dire indebolire la pace nel continente. Il cancelliere non ha mai esitato in merito agli obblighi morali imposti alla Germania. Egli stesso era stato prigioniero nelle carceri naziste. «Adenauer aveva un’autorevolezza che gli derivava in parte dalla personalità, in cui convergevano forza e dignità». Tra i punti ricordati da Henry Kissinger c’è anche la prima timida apertura nei confronti della Ostpolitik. Ovverosia, un’apertura nei confronti del mondo comunista, pur mantenendo strette relazioni con l’Atlantico. Non si curava del giudizio degli altri. Da leader responsabile, quando gli chiesero come avrebbe voluto essere ricordato, rispose semplicemente «come uno che ha fatto il suo dovere».
Charles De Gaulle riedificò la Francia sia nel 1944 che nel 1958. Sapeva bene di avere alimentato la sua leggenda ed era diventato un personaggio austero e misterioso. Molti francesi avevano collaborato con i nazisti e il regime di Vichy; lui invece ripristinò la dignità nazionale. Sia durante che dopo la guerra egli combatté per mantenere l’identità francese con determinazione e tenacia. Capì che il compito immediato nel Dopoguerra era realizzare riforme essenziali per lo Stato e ottenere l’appoggio sia dei lavoratori che dei borghesi affinché ci fosse la pacificazione nazionale. Fervente anticomunista, non trascurava la questione della previdenza sociale, che contribuì a creare in Francia. De Gaulle poteva apparire come una spina del fianco per i suoi pari. Un uomo freddo arrogante, irritante e ingeneroso.
Ma il generale si dimostrò pragmatico nel tentativo di tirare su il suo Paese dall’abisso. Dimostrò, seguendo le parole di Kissinger, che per fare cambiamenti rivoluzionari non è per forza necessaria una rivoluzione. «De Gaulle non voleva una dittatura […]. Immaginava un esecutivo forte, sottoposto a un sistema repubblicano, con un organo legislativo bicamerale e una magistratura indipendente». Tra gli obiettivi del generale anche l’emendazione della costituzione per formare un governo autorevole, ma anche concludere le avventure coloniali francesi e conferire stabilità allo Stato. De Gaulle diede anche una strategia sia militare che politica alla Francia in Europa. Si fece paladino dell’indipendenza europea rispetto a Washington. Infine, governò un Paese tormentato da conflitti internazionali e coloniali, ma anche interni allo Stato. Il che denota la sua capacità di leadership.
Richard Nixon è stato l’unico presidente americano a rassegnare le dimissioni. Mitigò gli attriti tra Stati Uniti e URSS al culmine della guerra fredda e portò fuori il Paese dal conflitto del Vietnam. Nixon si era fatto le ossa in marina durante la Seconda guerra mondiale e poi al Congresso. Dunque, la vicepresidenza sotto Dwight D. Eisenhower, del quale tentò di replicare le procedure di sicurezza nazionale. Kissinger ricorda che il suo ex capo gli parlava come se fosse un collega accademico. Da amico, ne ricorda i difetti: «Gli handicap di Nixon – l’ansia, le insicurezze che gli facevano sentire il bisogno di pretendere il massimo rispetto, la riluttanza ad affrontare a viso aperto chi non era d’accordo con lui – alla fine danneggiarono la sua presidenza». Kissinger ricorda che Nixon dava il meglio di sé nei dialoghi sugli obiettivi a lungo termine.
La dottrina Nixon aveva tre capisaldi:
«1) Gli Stati Uniti avrebbero mantenuto tutti gli impegni inerenti ai trattati. 2) Avrebbero offerto uno scudo di difesa se una potenza nucleare avesse minacciato la libertà di una nazione alleata […]. 3) Gli Stati Uniti avrebbero offerto aiuti militari ed economici, ove questi fossero stati richiesti».
I suoi anni sono anche quelli della Ostpolitik, i cui obiettivi, ricorda Kissinger, il presidente cercava di conciliare con quelli della NATO. Un altro aspetto importante della presidenza Nixon fu che egli aprì ufficialmente gli Strategic Arms Limitation Talks (SALT) con i sovietici. Considerava il controllo degli armamenti un elemento essenziale per la pace del mondo e l’ordine internazionale. Sul Medio Oriente intendeva ridurre il volo militare sovietico incoraggiando i piani arabi radicali, una politica portata avanti con fortune alterne anche dai suoi successori.
Anwar Sadat fu prigioniero per due anni per avere collaborato con Erwin Rommel. Dopo l’improvvisa morte di Gamal Abdel Nasser, divenne presidente dell’Egitto dal 1970 al 1981. Kissinger ne riconosce i trionfi che sono perlopiù di natura teorica. Gli accordi di Camp David spianarono la strada agli accordi di Oslo. «Sadat contribuì con una coraggiosa prospettiva di pace, del tutto innovativa sul piano teorico e audace nella realizzazione. Poco brillante nei primi anni della sua vita, rivoluzionario nel periodo formativo, figura apparentemente di secondo piano anche quando ricoprì cariche apicali, e guardato con sufficienza nel momento in cui divenne presidente, Sadat propose un concetto di pace la cui promessa non si è ancora riusciti a onorare». Kissinger ricorda come lo stile diplomatico occidentale nei confronti del Medio Oriente cambiò anche grazie a Sadat.
Egli prese unilateralmente una serie di decisioni che disturbarono molti in Egitto. Ad esempio, per decreto disabilitò il sequestro della proprietà privata deciso nell’amministrazione precedente e si dichiarò favorevole a un accordo federativo con Libano e Siria, nonché ad ampi cenni di distensione nei confronti di Israele. Per gli accordi di Camp David, insieme al premier israeliano Menachem Begin vinse il premio Nobel per la Pace nel 1978 – un riconoscimento che vanta anche lo stesso Kissinger. «Sadat aveva creduto che la libertà dell’Egitto si potesse raggiungere prima attraverso l’indipendenza e poi con la riconciliazione storica. Il suo scopo era riaprire l’antico dialogo tra ebrei e arabi, convinto che le loro storie fossero destinate a intrecciarsi. Era proprio questa fiducia nella compatibilità e nella coesistenza di società fondate su diverse fedi religiose che i suoi oppositori trovavano intollerabile». Era un uomo paziente e sereno, conclude Kissinger. Qualità essenziali per un leader.
Lee Kuan Yew diede un forte impulso all’evoluzione di Singapore. Città povera e multietnica, venne trasformata in uno stato-città tranquilla e ordinata. Lee Kuan Yew ne divenne il leader nell’agosto 1965. Thatcher lo definì uno dei più esperti professionisti dell’arte del governo del ventesimo secolo. Seppur circondata da Stati molto più grandi e aggressivi, Singapore riuscì a ritagliarsi un successo che obbligò anche la Cina di Deng Xiaoping a emularne i progetti. Il leader voleva eliminare la corruzione, e lo fece attraverso programmi governativi che consentirono anche il miglioramento delle vite dei singaporiani, dando pari opportunità a tutti. Lee Kuan Yew capì che l’istruzione estesa a tutti era importante. Combattere la tubercolosi divenne una delle sue massime priorità. Certo, Lee Kuan Yew era un leader autoritario. Garantì un ordine pubblico ferreo e un sistema giuridico attivo nell’isolare gli oppositori politici.
Kissinger ricorda che adottò l’uso israeliano di un esercito piccolo, ma altamente professionale. Lee Kuan Yew «è stato uno dei pochi leader politici rispettati su entrambe le sponde del Pacifico, sia per il suo acume, sia per i traguardi raggiunti». Si dimise da primo ministro nel novembre del 1990. I dati della Banca Mondiale parlano chiaro: il PIL pro capite di Singapore passò da 517 dollari nel 1960 agli 11.900 del 1990, fino ai 60.000 del 2020. Il leader aprì al capitalismo e non credeva che le differenze di civiltà fossero insormontabili. Le culture possono coesistere e adattarsi: Singapore ne era la prova. Kissinger potrebbe non convincere il lettore quando afferma che «l’autoritarismo non era, in sé, l’obiettivo di Lee, bensì solo un mezzo per raggiungere determinati fini». Ma «sperimentò senza sosta, prendendo in prestito idee da altri paesi e cercando di imparare dai loro errori».
Infine, Margaret Thatcher diventò primo ministro della Gran Bretagna nel 1979. «Si impegnò a scrollarsi di dosso gli impacci che avevano limitato i suoi predecessori, in particolare la nostalgia per le passate glorie imperiali e il perdurante rammarico per il declino nazionale». L’establishment, che era esclusivamente maschile, la tollerava a fatica – anche perché apparteneva alla classe media. Per Thatcher non c’erano sfide impossibili. Le sue riforme cambiarono il Paese. Londra diventò un centro finanziario internazionale e molte aziende quali British Telecom, British Airways, British Steel e British Gas furono privatizzate. I detentori di azioni ordinarie in Gran Bretagna arrivarono a quadruplicarsi nei suoi anni. La sua “democrazia basata sulla proprietà” aiutò milioni di individui ad arricchirsi. Kissinger rassicura: non considerò mai seriamente la privatizzazione dell’NHS. L’impresa delle Falkland nell’aprile 1982 rappresentò l’apice della sua popolarità.
Sotto la sua premiership si avviarono le trattative per la cessione di Hong Kong, britannica dal 1842. Thatcher era intransigente e diede coraggio a un Paese smarrito. «Quando era diventata prima ministra, il declino nazionale non era solo una questione di economia che arrancava, ma una convinzione collettiva, che si autoalimentava e in ultima analisi contribuiva a debilitare il Paese […]. Nel respingere quel senso diffuso di spossatezza, […] evocò […] una visione positiva per il futuro […]. Thatcher continuò a mantenere i nervi saldi e si mostrò incrollabile nelle sue convinzioni». Figlia della generazione che aveva visto gli eventi di Monaco, non fu mai attratta dalle prospettive di pacificazione sul solco dell’appeasement, ricorda Kissinger. Con Mikhail Gorbaciov si trovò subito benissimo. Con Ronald Reagan aveva una “relazione speciale” e fu una partner consigliera fedele e fidata. Fedeltà e fiducia: due altri elementi importanti per un leader.
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