C’è un tema che da anni, e per i più svariati motivi, fa puntualmente capolino nel dibattito pubblico occidentale: il complottismo. Nell’ultimo decennio, fantomatici piani di controllo delle masse e cospirazioni su scala mondiale sono stati ripetutamente al centro dell’attenzione mediatica di tutto il mondo. Dai primi terrapiattisti derisi dagli osservatori passando per l’assalto al Campidoglio statunitense, per arrivare alla grande guerra no-vax esasperata dalla pandemia ma partita da più lontano: nella stagione dei populismi i complotti, in realtà, non sono mai spariti in quanto parte integrante dello stile e della comunicazione dei partiti antisistema di tutto il mondo.
Dopo una pandemia e con una guerra in corso in Europa, abbiamo fatto il punto della situazione con Leonardo Bianchi, giornalista esperto di teorie del complotto autore del libro Complotti! per minimum fax – e dell’omonima newsletter sul tema.
Perché è importante raccontare il complottismo?
«È un fenomeno centrale nella politica contemporanea. Basti pensare a cosa è successo con l’assalto al Campidoglio statunitense: un attacco al cuore della democrazia americana alimentato da teorie del complotto generate sia dall’alto, confezionate ad hoc da Trump e dal suo entourage, sia dal basso, come i seguaci di QAnon, lo sciamano Jacob Chansley e tutte quelle persone che credevano, in buona e cattiva fede, che le elezioni fossero state truccate e che all’interno del Campidoglio di Washington ci fosse il centro nevralgico della cricca di pedofili satanisti che governa gli USA. Questo è un esempio, ma ce ne sono tanti altri. Non è un fenomeno esclusivamente statunitense ma anche europeo e, più in generale, globale. Adesso abbiamo la terza carica dello Stato [il Presidente della Camera Lorenzo Fontana, ndr] e la premier che in passato hanno dato credito al complotto della sostituzione etnica [nel frattempo anche il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida è tornato sulla questione, ndr]. Sono persone che adesso detengono il potere. La lettura secondo cui le teorie del complotto appartengono solo a una frangia di matti è completamente sbagliata. Sono anche elementi centrali della vita politica, sociale e culturale di ogni Paese».
Lo studioso Richard Hofstadter sosteneva che i complotti sorgono dove vi sono conflitti sociali e la situazione peggiora quando le persone non si sentono ascoltate. Quali sono gli scontri che danno vita ai complotti odierni? Chi stiamo ignorando?
«L’idea che si rifugga in una teoria del complotto perché non ascoltati in realtà non sta più in piedi. Facciamo un esempio: la teoria di QAnon è sostenuta da Trump, che è stato al potere. La presidenza di Trump doveva essere una grande rivincita ma il tycoon si è rivelato non essere il salvatore della patria, bensì un politico mediocre che non ha tenuto fede praticamente a nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale. QAnon ha creato un Trump immaginario impegnato in una lotta senza quartiere contro i pedofili quando in realtà da presidente non ha mai approvato alcun provvedimento contro la pedofilia ma, anzi, era amico di Jeffrey Epstein, un pedofilo. Le teorie del complotto servono a sopperire a delle mancanze nella vita reale e ad alterare la percezione di qualcosa che sappiamo non sta andando come vogliamo, e in questo senso creano una realtà parallela che ci proietta dalla parte dei “buoni”, giustificando anche una forma di attivismo distruttivo come l’assalto al Campidoglio. Si crea un “noi contro loro” tipico del populismo».
Donatella Di Cesare definisce i complottisti “nostalgici della razionalità”: oggi il mondo è più complesso rispetto a solo qualche decina di anni fa, meno leggibile e più confuso. Queste teorie nascono dalla perdita di punti di riferimento chiari per le persone?
«È un fenomeno legato alla modernità ma non è nuovissimo. Dalla Rivoluzione francese in poi è qualcosa di connaturato alle società democratiche moderne, non solo occidentali. Gli esperti lo definiscono un lato oscuro dell’illuminismo. Sono qualcosa di razionale, il tentativo disperato di ordinare il mondo. Non è un caso che il complottismo abbia delle fiammate durante i momenti di crisi, e in questi anni di Covid-19 ne abbiamo avuto la riprova. Siamo in un mondo caotico dove abbiamo perso i punti di riferimento che credevamo di avere. Secondo il politologo americano Joseph Uscinski, i due più grandi picchi di teorie del complotto sono stati a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel periodo della rivoluzione industriale, dove la società è stata ristrutturata e le persone sono diventate disorientate, e dopo la Seconda guerra mondiale, all’inizio della Guerra fredda, quando si entrò in una nuova epoca con al centro un grande nemico; ma, in quel caso, c’entrava molto più la paranoia».
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Abbiamo già citato Capitol Hill e QAnon: perché negli Stati Uniti i complotti assumono una forma più strutturata e pericolosa?
«Il passaggio è dovuto alla presenza di una forte tutela politica da parte di chi detiene il potere, come Trump e alcune correnti repubblicane per QAnon. Quando il presidente degli Stati Uniti ti chiede di andare ad assaltare il Congresso perché le elezioni sono state rubate e al suo interno ci sono pedofili satanisti, se sei un seguace lo fai. Il secondo motivo è economico: fare il complottista negli USA, quindi parlando inglese, ti offre una platea sconfinata rispetto a essere un complottista italiano. Più persone raggiungi, più occasioni di monetizzare hai. Non a caso, il sito di complottismo più grande, Infowars, è americano».
Cultura del sospetto e giustizialismo giornalistico sono due fenomeni profondamente legati. Pensiamo, ad esempio, alla maggiore copertura mediatica che ha un rinvio a giudizio rispetto al verdetto, soprattutto se si tratta di un’assoluzione. È mero sensazionalismo, sono gli interessi di chi detiene il potere o nasconde qualcosa di più, comune a uno spirito complottista?
«È tutti questi elementi insieme. La cultura del sospetto non è di per sé negativa. È giusto essere sospettosi nei confronti delle autorità, perché alcune di queste mentono e depistano. La storia italiana è piena di casi in cui il sospetto si è rivelato fondato, in particolare negli anni di piombo e nella stagione delle stragi. Oggi siamo in una fase diversa. La grande differenza tra l’essere sospettosi e finire nel vortice del complottismo è la verifica delle fonti e l’appoggiarsi a dati comprovabili. Non a caso, nessun complotto reale (perché ovviamente ne esistono) è mai stato smascherato da una teoria del complotto. Chi ha svelato i veri complotti? Chi vi era dentro oppure whistleblower come Edward Snowden e Chelsie Manning, che, però, si sono appoggiati a giornalisti che hanno compiuto il loro processo di verifica delle fonti accertando che quanto rivelato fosse vero. Sono loro che hanno cambiato la politica e la società, non i complottisti».
Una critica che viene spesso mossa a chi si occupa del tema è che il debunking, cioè lo smascheramento di complotti e fake news, rischia di motivare chi già crede nei complotti e convincere chi è in bilico (“se i media ci attaccano vuol dire che abbiamo ragione”), oltre a creare un problema di sovrarappresentazione. È uno strumento necessario o una miccia innescante?
«Da giornalista, il debunking è il primo, fondamentale e necessario strumento di analisi. In generale, il giornalismo si basa sulla verifica delle fonti e sullo stabilire, con un certo grado di veridicità, cosa è vero e cosa è falso. Per quanto riguarda i complotti, da solo non basta: smontare una notizia falsa è un conto, sconfessare una teoria è tutt’altra cosa. Queste teorie riguardano molti aspetti psicologici, sociali e culturali che una singola fake news non riesce a toccare. Il complottismo è anche un sistema di credenze che un individuo ha o può sviluppare. Dire che una teoria è falsa non basta e non c’è un modo univoco per affrontare il problema. È necessario mostrare lo scheletro, le fondamenta di una teoria: come sono costruite, chi e perché le crea. Soprattutto, è bene mostrarne la ricorsività, perché ogni teoria del complotto è un bricolage di altre, nessuna è davvero originale. Tutto ciò non basta perché c’è comunque uno zoccolo duro impossibile da convincere, ma con questo lavoro giornalistico e accademico si cerca di dare strumenti preventivi a chi rischia di cadere nella tana del Bianconiglio e alle persone a loro vicine che vogliono aiutare».
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Ormai è appurato come i complottisti non siano (solo) quelli che si rifugiano nei bunker con la stagnola in testa alla vista della scia degli aerei. Esiste uno “spettro del complottismo” ed è nella parte più grigia che si concentra il maggior numero di individui. Nel nostro piccolo siamo tutti complottisti?
«Inizialmente potremmo esserlo, o questo è quanto sostiene Rob Brotherton nell’ottimo saggio Menti sospettose. Per come funzionano cervello e pregiudizi, quindi il nostro orientamento ideologico e politico, se si creano le condizioni giuste possiamo essere attratti da una teoria del complotto. Poi un conto è esserne affascinati e un altro crederci ed entrare all’interno di quel mondo, il punto di arrivo di un processo individuale che parte da più lontano. Siamo tutti complottisti? No, ma potremmo diventarlo. Anche per questo è importante parlare di teorie e non porre troppa distanza tra noi e il mostro complottista: abbiamo tutti molte idee folli».