A seguito della discussione sulla possibile fusione tra Generali e Intesa San Paolo, che avrebbe creato un colosso bancassicurazione con pochi eguali al mondo, l’approfondimento si sposta sul nuovo tema caldo della finanza italiana: le banche venete. Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza sono state a lungo il bacino del credito di una delle regioni italiane più produttive; la crisi ha messo in ginocchio il Veneto, i suoi distretti industriali, e con essi le banche che ne erano creditrici. La lente, dalle banche venete, passerà su Unicredit e Intesa SanPaolo, che invece riescono, non senza difficoltà, a essere solide e credibili in un contesto come quello odierno.
Veneto Banca
Veneto Banca, nata con il nome di Banca popolare di Montebelluna, nasce nel 1877 nel cuore del Nord-est. Dal 1997 comincia un cammino che comprende il cambiamento della propria denominazione in quella attuale, e dal 2000 estende i propri interessi nell’area dell’Europa orientale, soprattutto in Romania, Albania, Croazia e Moldavia. Nel corso degli anni fa importanti acquisizioni in Italia e si sviluppa sul territorio nazionale. Nel 2015, in seguito alla crisi della banca, viene decisa la trasformazione da Cooperativa in Spa. Per la trasformazione è necessario un aumento di capitale di un miliardo di euro, interamente sottoscritto dal Fondo Atlante.
Dove si possono trovare le cause di un tracollo così veloce di uno dei gioielli del Nord-est? Com’è possibile che una banca considerata tra le più solide fino a pochi anni fa sia ora sull’orlo del fallimento? Le cause sono ovviamente molteplici, ma hanno principalmente due basi: la crisi del 2008 e l’incapacità manageriale della dirigenza. Il primo motivo è abbastanza evidente: l’imprenditoria del nord-est è largamente fondata sul prestito bancario, e con il venir meno della domanda molte aziende si sono trovate in difficoltà, non riuscendo a far fronte ai propri impieghi e creando così sofferenze per la banca. La seconda motivazione ha radici più profonde: in primo luogo, gli statuti delle banche popolari permettevano ai dirigenti di rimanere a vita nelle loro posizioni, mentre l’azionista tipico della banca non è un uomo di finanza, ma semplicemente qualcuno che prova fiduciosamente a mettere da parte qualcosa. Da qui nasce il prezzo gonfiato delle azioni, che aveva sì riscontro sul patrimonio della banca, ma solo per il fatto che gli immobili venivano costantemente rivalutati, non facendo entrare in gioco il mercato e creando così valutazioni al di fuori di ogni logica. A questo va aggiunta anche l’incapacità degli organismi di controllo interno, che effettivamente non hanno svolto correttamente il loro lavoro.
L’articolo completo è disponibile sul nostro magazine alle pagine 13-16.